PIACERE E DOVERE

La fedeltà resta \ un valore, che nei fatti non è però generalmente rispettato. Può essere per capriccio, per superficialità, ma proviamo ad andare oltre il capriccio e la superficialità, per vedere come mai non è ritenuta un valore morale così alto.
Ho schematizzato quattro punti.
La fedeltà \ è un vincolo. Anche nel mito di Medea si comprende che l’architettura presuppone elementi strutturali vincolanti. Allora pensiamo a questo: la trasgressione alla fedeltà non potrebbe apparire come una testimonianza, un’affermazione di libertà? Messa di fronte alla libertà, il principio fondamentale che regola la vita dell’uomo, la fedeltà non potrebbe apparire come una profonda «illibertà»? Perché dovrei negare un principio che mi porta a una soddisfazione personale? In virtù di quale vantaggio dovrei rinunciare a un piacere soggettivo? Perché dovrei reprimerlo? Ecco, allora, che la fedeltà appare come un vincolo funzionale a un ordine sociale che magari neppure condivido. \
Secondo punto: la famiglia. Perché sacrificare il mio principio di piacere alla famiglia? L’infedeltà diventa un’esperienza profonda di quel principio di piacere che non intendo reprimere in virtù di una realtà sociale, di un ordine sociale che, tutto sommato, neppure condivido.
Terzo punto: la fedeltà \ implica un sacrificio e noi sappiamo che oggi la nostra realtà sociale, esistenziale, è lontanissima dall’idea culturale di sacrificio. Medea, pur di affermare il valore morale della fedeltà nella famiglia, sacrifica se stessa e sacrifica i propri figli, ne diventa addirittura l’assassina. Consideriamo anche la grandezza di un ideale: si può immaginare oggi il sacrificio per difendere un ideale? Ho citato Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana: storie di gente che andava fiera alla tortura e alla fucilazione. Si prenda invece una realtà molto più vicina a noi, come quella dei brigatisti rossi: nessuno ha deciso di sacrificarsi per le proprie idee e tutti hanno fatto nomi, cognomi e indirizzi. È un esempio, e come tale estremamente parziale, ma rivela come, anche in una situazione di tensione sociale in cui il riconoscimento della forza di un ideale potrebbe consentire di sacrificarsi per esso, questa scelta non abbia seguito.
Il quarto punto, l’ultimo, è legato alla religione. È indubbio che, nel nostro tempo, il sentimento religioso soffra di una certa fragilità. Cosa comporta la sacralità dell’amore, che conduce alla sacralità del matrimonio, alla sacralità della famiglia, alla fedeltà, appunto? Vincola ai valori della trascendenza e quindi alla trascendenza della verità, del bene, della salvezza.
Questi quattro aspetti possono, al di là del capriccio e della superficialità, giustificare la diffusa e in qualche modo disinvolta adesione alla vita infedele.
Si può, dunque, essere fedeli? Io credo di sì: si può essere fedeli quando si desidera ciò che si ha e quando si sono individuate le cose davvero importanti per la nostra vita. Nel mio romanzo Fedeltà, che è un racconto sul ricordo, ognuno dei quattro personaggi rappresenta un’idea di fedeltà: le due protagoniste femminili, la fedeltà l’una alla politica e l’altra all’amore; i due protagonisti maschili, in modi diversi tra loro, la fedeltà all’amicizia e all’amore.
Guardando alla nostra storia personale – ovviamente non bisogna essere troppo giovani – possiamo constatare di essere rimasti fedeli alle cose che veramente hanno avuto importanza per noi. Forse nel corso della nostra esperienza non lo comprendiamo, ma quando facciamo un bilancio della nostra vita, un bilancio che generalmente non quadra mai, siamo fortunati se possiamo riconoscervi la presenza di un rapporto di fedeltà, perché vuol dire che siamo rimasti fedeli a cose decisive e importanti. È molto complicato, oggi, perché viviamo in un nichilismo quasi esasperato che credo sia la vera malattia spirituale del nostro tempo. Allora si capisce che, in una vicenda esistenziale in cui il nichilismo è al centro e domina i nostri comportamenti, nulla diventa, purtroppo e drammaticamente, davvero importante per noi.
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\ Quello che io trovo inaccettabile è l’eccessiva superficialità con cui si assumono impegni affettivi, di lavoro, politici, per poi venirvi meno proprio perché non si è all’altezza del compito. È chiaro, per esempio, che la costruzione di una famiglia è un compito complesso e che di tale complessità ci vuole una consapevolezza che molte volte manca. Ho constatato, invece, in particolare frequentando i miei studenti, l’attuale estrema facilità dell’incontro e dello scioglimento: quanti ragazzi hanno lasciato l’università, si sono sposati, hanno divorziato e ora vogliono tornare a studiare.
Stupefacente, a mio avviso, è il cliché dell’infedeltà: non c’è un’infedeltà grandiosa, tragica, c’è un’infedeltà banale, ridicola, basata su sentimenti minimi. Penso, per esempio, a quella grandiosa fedeltà tragica di cui abbiamo testimonianza nei processi del 1936-37 a Mosca, in particolare contro Bucharin. In una geniale visione hegeliana della storia, Bucharin, processato perché considerato traditore, lui che non lo era assolutamente, fa questa dichiarazione: «Io sono stato fedele al partito e ai princìpi della rivoluzione sovietica, ma evidentemente se sono qui in tribunale e vengo accusato – e facilmente verrò condannato a morte – è perché ho sbagliato». Dove riconosce l’errore? Egli riconosce il suo errore nel fatto che la storia lo giudica, e quando la storia ti giudica vuol dire che tu sei contro la storia, hai sbagliato. È la visione hegeliana della storia: la storia è profonda razionalità, se tu sei al di fuori della sua razionalità, significa che sbagli. La tua fedeltà è ingannevole.
Restando in un ambito ben più modesto, se un nostro politico va da una parte all’altra dell’arco parlamentare, io non ci vedo tragicità, ma opportunismo.
Questa è la nostra storia. Con un décalage si arriva alle vicende personali, nelle quali prevalgono i sentimenti minimi, elementari, dove fondamentalmente non c’è educazione a una disciplina.

E ciò accade perché è venuta meno la figura del padre, vuoi perché le donne hanno sempre maggior rilevanza nella realtà sociale, sono autonome, portano a casa uno stipendio, hanno delle responsabilità anche alte e tendono, nel migliore dei casi, a surrogare le funzioni del padre; vuoi perché il padre, vilmente, si sottrae alle sue funzioni.
Con la scomparsa della figura autorevole del padre si è perso un punto di riferimento fondamentale di quell’architettura su cui poggia la fedeltà nelle istituzioni.

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