Paolo Giordano
nostro inviato a Vienna
Ma poi si lascia andare, la fronte sudata, il microfono sbandierato come una majorette, la voce arrochita. Prima c'era lui sul palco ma ora c'è l'altro lui, in un rimpiattino di ruoli perché, come dice un suo grandioso successo, We didn't start the fire, comunque non abbiamo appiccato il fuoco, non prendiamo responsabilità. E anche qui, in una Wiener Stadthalle calda come un altoforno, Billy Joel si è mostrato sul palco nelle sue due vesti, con quell'andirivieni di personalità che in trent'anni lo hanno incoronato re mida del pop (110 milioni di dischi smerciati, roba da U2) ma pure principe della bottiglia, incastrato sul vagoncino che dal Bronx a Long Island l'ha portato sulle perfide montagne russe del successo. Su e giù. Sopra e sottosopra. E che ora, a 57 anni appena compiuti, imbiancato nel pizzetto e maltrattato dalla giacca grigia troppo stretta, Billy Joel sia lassù in forma e restaurato dall'ultimo ricovero dell'anno scorso alla Betty Ford Clinic, si capisce anche da questo concerto viennese che è stato la cartina al tornasole della sua musica, così golosa da permettersi tutti i gusti, dal pop allo swing al rock'n'roll, inalberando quello stile che sa di limousine però col finestrino abbassato e il gomito fuori, di cocktail ma anche di piatti lavati, di New York da dépliant con le tinte disilluse di chi la conosce troppo e troppo bene. «C'è sempre da imparare» aveva detto qualche ora prima al bar dell'Imperial (the freddo nel bicchiere, e non vodka), salvo poi ammettere alla Stadthalle, accennando a un walzer viennese, che «ho sempre rubato la musica a due compositori, Schubert e Grieg, ma non li ho mai pagati».
E così, seduti a un pianoforte girevole, suonato sul palco ora a destra ora a sinistra, mister Billy e dottor Joel si presentano con uno show di ventotto canzoni, da Angry man passando per Zanzibar e New York State of mind fino alla controversa Only the good die young (più o meno le stesse che farà al Colosseo di Roma il 31 luglio, con l'aggiunta di This is the time e Just the way you are) sfoggiando una «soap pop» impeccabile che fa esplodere i settemila in platea, prima seduti asburgicamente sulle poltroncine e poi scatenati in balletti e battimani che, con la gioia del sax o con il serpeggiare del piano, spingono via tutti i malumori. C'è gente, qui nell'altoforno, che alla fine esce dalla sala con il gessato fradicio e il sorriso da bambino, e signore che costringono i mariti appesantiti dalla birra a ballare e ballare. In fondo questo è quello che accadeva a Billy Joel anche quando, nel 1971 senza una lira, suonava il piano all'Executive Lounge di Los Angeles, anche lì senza sapere quale strada scegliere. La gente che se lo ritrovava di fronte pensava fosse Billy Martin, come scritto sulla locandina, e magari anni dopo, quando i suoi dischi vendevano più di quelli di Simon & Garfunkel e facevano innamorare Elton John, si stupì di vederlo sul tetto del mondo, richiesto da tutti. Così richiesto da prestare un suo brano, My life, a una sitcom che nel 1978 faceva debuttare Tom Hanks in tv. E così famoso da doversi bere un goccetto per non perdere l'equilibrio. Perciò oggi fa meno scalpore quando lui, che ha persino perso un milione di dollari pur di registrare nell'87 un disco dal vivo a Mosca davanti ai culi di pietra del Partito Comunista, ha archiviato il pop e compone solo canzoni senza parole perché, come dice in buon italiano, «la musica è la lingua prima». Quando era un ragazzino sfaticato alla Hicksville High School ascoltava «Beethoven e Mozart, ma anche James Brown e i Rolling Stones perché è importante il ritmo non le parole. L'opera italiana è famosa dappertutto, ma nel mondo pochi capiscono i testi. Così io ora compongo sinfonie e colonne sonore, basta col pop». Intanto forse non è mai stato davvero suo, e tra loro forse c'è stato solo un mutuo soccorso.
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