Piazza Affari, il «bancomat» dei grandi soci

Altro che motore di sviluppo, la finanza italiana continua a interpretare Piazza Affari come un sofisticato «Bancomat» per distribuire il denaro tra i propri azionisti. A dimostrarlo sono i numeri, pazientemente raccolti dall’ufficio studi di Mediobanca nella tradizionale indagine «Indici e Dati»: dal 1998 a oggi lo squilibrio tra «entrate» e «uscite» è prossimo ai 313,7 miliardi e la tendenza, diffusa anche all’estero, difficilmente cambierà da qui a fine anno. In particolare Mediobanca stima che la Borsa ha raccolto 114,7 miliardi (94,8 miliardi dagli aumenti a pagamento e 19,9 dalle Ops), contro i 428,3 miliardi «restituiti» ai soci: 124,9 miliardi attraverso le Opa, 68,5 miliardi mediante le Opv (attraverso cui gli azionisti storici fanno cassa in sede di quotazione) e 234,9 miliardi di dividendi. A cui andrebbero a rigore sommate le operazioni di buy-back.
La pioggia di denaro è stata quindi a favore anche dei piccoli soci ma, secondo Mediobanca, rischia di sottrarre risorse alla crescita e conferma la scarsa passione per la Borsa della corporate Italia: se non si tiene conto dei travasi dall’ex Nuovo Mercato e da Expandi, dal 1990 ad oggi è negativo per 28 unità il saldo tra quotazioni e addii al listino.
La carestia lasciata dalla crisi ha però di recente costretto molti gruppi a chiedere agli azionisti di mettere mano al portafogli. Tanto che a fine giugno erano già 15,2 i miliardi incassati dalle società con gli aumenti di capitale, un record superato in valore assoluto solo dai 16,9 miliardi raccolti nell’intero 1999. Ad avere sete di liquidità sono state le banche (per 3 miliardi, vale a dire la ricapitalizzazione di Unicredit) e le industrie per i restanti 12,2 miliardi (Enel e Snam Rete Gas in testa). La «corsa all’acqua» è proseguita dopo il 30 giugno: 500 i milioni raccolti, cui si aggiunge in prospettiva la nuova manovra da 4 miliardi di Unicredit.
In parallelo, le società hanno poi dimezzato il monte dividendi a 16,57 miliardi, lo stesso valore del 2003. Il taglio più duro (-88%) è stato quello subito dagli azionisti delle banche che hanno visto la cedola lorda cadere a 1,3 miliardi, contro gli 11,1 miliardi del 2008: i dividendi pagati dalle banche rappresentano l’8% del totale (era il 40% nel 2007) con un rendimento rispetto alle quotazioni (dividend yield) schiacciato a giugno all’1,3%. Senza contare che il crollo delle quotazioni sta facendo diventare il listino un po’ meno «bancocentrico»: su una capitalizzazione di 480 miliardi, il credito pesa per il 28%, in recupero rispetto ai minimi di giugno 2008 (25,4%) ma distante dall’oltre 30% toccato nel 2005-2006. Piazza Affari ha poi perso terreno in termini di capitalizzazione rispetto alle Borse internazionali, dove emerge il salto dei Paesi emergenti con il listino di Shanghai che ha superato Londra (che a sua volta controlla Milano).
Nell’ultimo quarto di secolo, chi ha puntato sui big del listino milanese (17,1% il rendimento annuo dal 1984, dividendi inclusi) ha comunque guadagnato di più di chi si è affidato ai Btp (8,2%). Nel 2008 le blue chip sono andate in rosso (-41,7%) contro il +4,5% dei Btp. Nel dettaglio, la scelta più redditizia si è rivelata quella delle azioni di risparmio che dal 1996 al 14 ottobre 2009 hanno reso complessivamente il 342%, ossia l’11,3% medio annuo contro l’8,4% medio di Piazza Affari.

Dove è cambiata anche la mappa delle obbligazioni: se nel 1999 il 93,5% dei titoli erano emissioni del Tesoro, a fine 2008 questi rappresentano il 49% del totale mentre quelli di governi esteri sono al 47% con la Germania in testa.

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