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Piazza Vittorio? Un laboratorio «letterario»

Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è il titolo (davvero alla Wertmüller) di uno dei più fortunati recenti romanzi ambientati a Roma. Tanto che qualcuno con grande coraggio e imbarazzante disinvoltura ha paragonato l’autore, Amara Lakhous, che è algerino, al gran lombardo Carlo Emilio Gadda di Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. Ora, a parte la dimensione di scrittore «straniero» tanto dentro all’umore della capitale da saperla interpretare e narrarla con efficacia, il paragone mette i brividi.
Il giovane algerino, che è intelligente, avrebbe dovuto smarcarsi subito da tale improbabile confronto, invece ha in più occasioni incassato (ovviamente soddisfatto) e ha dichiarato che sì, in effetti, per lui Gadda è stato un riferimento. Sarà, ma mi viene in mente Cardarelli che una volta disse a un tizio: non mi chiami maestro, lei da me non ha imparato niente! Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è un libro piatto, unidimensionale, magistralmente innocuo laddove avrebbe potuto (dovuto, lo tengo per me) essere graffiante, sanguigno. A ben guardare sembra un’operazione di marketing ben riuscita: prendi un extra-comunitario (per altro colto e ben inserito, Lakhous in Italia si è laureato per la seconda volta e lavora come giornalista), mettilo a raccontare una storia d’intolleranza condominiale dipinta di giallo e scolpisci la morale.
Se non cominciamo a sforzarci l’un l’altro per una maggiore reciproca comprensione e a volerci tanto bene... faremo tutti una brutta fine, insomma, ci scapperà il morto. Non è che il romanzo in sé sia brutto, ha pagine divertenti, qualche ritratto umano è ben riuscito, fa alcune citazioni azzeccate, ma la cosa più autentica che vi si trova (quindi meno letteraria, meno aderente alla morale buonista di cui ho accennato) è l’odio di uno dei personaggi, un persiano, per la pizza. Va da sé, un odio simbolico. E di simbolo in simbolo, riducendo l’umanità all’osso tra buoni (i deboli e i tolleranti) e cattivi (gli altri) - che, per altro, sembrano disegnati in una silhouette tanto scarna da non ammette redenzione -, il romanzo va avanti riservando anche qualche gradevole trovata narrativa. Quello che rimane inammissibile sul piano concettuale è la banalissima equazione secondo la quale sensibile e colto, sta a tollerante come idiota e ignorante a chi conserva qualche dubbio o distanza dal prossimo che poi (nella verità, almeno) non è sempre tanto prossimo. Qualcuno, con una certa sagacia, ha scritto che Lakhous incarna perfettamente il veltronismo, in altre parole il buonismo elevato a teorema politico e chiave interpretativa del mondo, di cui il sindaco di Roma detiene il copyright.

L’osservazione non è errata, però manterrei il beneficio del dubbio, direi che tale rappresentazione con ogni probabilità avviene suo malgrado. Il veltronismo è come una malattia esantematica: se presa da adolescenti si può guarire senza rischi, Lakhous, in fondo come romano è giovane e come scrittore ha avanti a sé altre prove, altri orizzonti.

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