Piccoli azionisti e giudici incassano l’oro di Gelli

Stefano Zurlo

da Milano

Centosessanta lingotti d’oro. Valore: circa 2 milioni e 400mila euro. I piccoli azionisti del Banco Ambrosiano hanno infine pescato il jolly: il tesoro di Licio Gelli. Quello che era occultato nelle fioriere del parco di villa Wanda, all’ombra di gerani e bougainvillee. Se lo sono aggiudicati loro a quasi un quarto di secolo dal crac della banca che li aveva rovinosamente traditi. È una storia italiana che si chiude come le favole che si rispettano e un lieto fine quasi incredibile: il risarcimento che copre i due terzi circa del credito vantato arriva dai fiori. E dagli stessi vasi ecco anche gli spiccioli per Gherardo Colombo e Giuliano Turone, i magistrati che il 17 marzo 1981 scoprirono l’archivio riservato del Venerabile e scoperchiarono la Loggia P2. Avevano querelato Gelli per alcune frasi pronunciate nel corso di interviste: ora passeranno all’incasso. E insieme a loro riceverà quanto gli spetta anche l’avvocato Guido Viola, pure coinvolto in quella storia di carte bollate come ex magistrato.
Ma quasi tutto l’oro di Gelli andrà ai piccoli azionisti. Era il 12 settembre 1998. Gli agenti della questura di Arezzo suonarono il campanello di villa Wanda. Era la perquisizione numero 35 da quelle parti: ma un colpo di genio, o chissà, una soffiata, la trasformò in un’operazione da manuale. Fra le begonie che il Venerabile innaffiava, ecco quel luccichio. Gelli, naturalmente, affermò che si trattava di ricchezze accumulate onestamente nel corso della sua vita di banchiere. Gli investigatori, in bilico fra cronaca giudiziaria e fiction, scomodarono la seconda guerra mondiale e il saccheggio delle riserve della Banca centrale di Jugoslavia. Chissà. L’esistenza del Venerabile è al crocevia di innumerevoli misteri, veri o verosimili. Lui ha sempre dato spiegazioni minimaliste, esperti e dietrologi hanno letto e interpretato la sua biografia come un susseguirsi di ricatti, complotti, attentati alla democrazia.
La storia di questi lingotti resta avvolta nella nebbia. Ma almeno, dopo anni e anni di battaglie si è stabilita la loro destinazione. In principio l’oro era stato messo all’asta, ma i risultati furono davvero modesti. Furono venduti solo tre lingotti. E allora si scelse la strada affollata dei creditori. E qui il giudice dell’esecuzione del tribunale di Roma Giovanna Russo si pose un’altra domanda: da chi cominciare? Il Monte dei Paschi di Siena reclamava 30 miliardi di lire, portati all’estero e scomparsi ai tempi del grande imbroglio, l’avvocato Gianfranco Lenzini si è battuto per tutelare i piccoli azionisti e per porre fine alle loro vie crucis. «C’è gente che ha perso davvero tutto, che ha sofferto e soffre davvero molto», spiega lui. E il tribunale di Roma gli ha dato ragione: «È un risultato importantissimo, devo dire che alla fine possiamo pronunciare la fatidica frase: giustizia è fatta».
Con questa vittoria i piccoli azionisti chiudono la partita col Venerabile e rinunciano ad ulteriori azioni, in particolare al tentativo di mettere le mani su villa Wanda. La caccia però prosegue in altre direzioni: verso l’eredità di Bruno Tassan Din. E poi nei confronti di Giuseppe Ciarrapico e Francesco Pazienza, chiamati in causa a vario titolo per il crac.

Non solo, il tenace Lenzini insegue anche otto milioni e mezzo di dollari dell’epoca sequestrati dalla magistratura svizzera: «La Procura generale di Milano li ha scongelati nel ’96 senza avvertirci come avrebbe dovuto e per questo ho presentato denuncia al Pm Francesco Greco. Aspetto che mi facciano sapere dove sono finiti quei soldi».

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