Un piccolo imprenditore si chiede: «Come faccio a essere ancora ottimista?»

Caro direttore
come tanti italiani ho dato il mio voto a Berlusconi. Non perché io provi particolare simpatia per le convention sfarzose, per i proclami a televisioni unite, per l’inclinazione al protagonismo che spesso gli si attribuisce; ho dato il mio voto a Berlusconi perché faccio parte di quella minoranza silenziosa e dedita al lavoro, che pur non essendosi arricchita indulgendo a compromessi, ha sempre fatto del mestiere e della professionalità la sua bandiera. Per questo abbiamo votato Berlusconi, perché l'abbiamo identificato come chi avrebbe fatto della professionalità, della capacità organizzativa e dell'intelligenza gestionale la propria bandiera di governo. Oggi queste speranze lasciano il posto all'amarezza che mi assale nel leggere sui giornali i proclami all'ottimismo, annegati nella spazzatura mediatica che tanto spazio occupa nella mente dei giornalisti, mentre il Paese affonda tristemente nel suo bieco provincialismo. Sono da poco rientrato dal «far east» per uno dei miei viaggi di lavoro, una boccata d'aria aperta per rendermi conto di come Paesi che soltanto ieri additavamo come «Terzo mondo» pianificano i propri obiettivi di crescita e li perseguono con poche parole e tanto pragmatismo: basta che qualsiasi occidentale apra un'impresa e trasferisca un briciolo di preziosa tecnologia e ti garantiscono 10 anni di esenzione dalle tasse, contratti di lavoro agevolati, abbattimento dei dazi doganali, senza vincolo di reinvestire sul posto una lira dell'utile guadagnato. Questa è la ricetta asiatica alla crisi. E noi? Stiamo a guardare. A noi piccoli viene chiesto ripetutamente ottimismo, ma ogni giorno ci si chiude qualche porta in faccia. Soprattutto dalle banche. L'ultima risposta negativa questa mattina, anche se, nonostante la crisi, i miei numeri sono in regola, il bilancio è in attivo, il portafoglio ordini (incredibilmente) ampio, i clienti affidati. Eppure la risposta è solo e sempre no : il titolare non è abbastanza ricco per meritare l'attenzione delle banca. È vero: sono colpevole. Colpevole di aver sempre tirato la carretta insieme ai suoi 65 fra operai e impiegati e di aver sempre fatto tutto in regola. Mi dica lei presidente, per quale ragione dovrei essere ottimista ? Quale politica industriale intende intraprendere questo paese ? Come possiamo avere fiducia che quegli stessi manager che hanno provocato il dissesto finanziario che tutti stiamo pagando, siano tanto trasparenti da cambiare completamente il proprio modo di gestire il credito? A Berlusconi vorrei dire: torni fra chi lavora tutti i giorni e la vota e non si curi di cortigiani e veline, né tantomeno dei rifiuti che hanno smesso di soffocare Napoli per trasferirsi sui giornali che sparlano di lei, e ricominci a fare politica vera, a pianificare obiettivi e mandi a casa un po' di quei parassiti che ormai non possiamo più permetterci di mantenere. Lo faccia non per salvare se stesso dal declino politico, ma per dare un barlume di speranza a questo paese, che diversamente è destinato a soccombere.

Capisco il suo sfogo, caro Davide. E sono sicuro che molti dei nostri lettori si ritroveranno nelle sue parole: condivideranno l’appello a parlare di crisi più che di gossip e ancor di più le sue lamentele sulle banche.

Ma non scherziamo sull’ottimismo, che io preferirei chiamare «fiducia». Senza fiducia non si esce dalla crisi. E senza fiducia non si può essere buoni imprenditori. Come lei, a giudicare dai risultati della sua azienda, sicuramente è.

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