Per entrare nella casa di Piero Buscaroli a Bologna bisogna piegare il capo, come nella basilica della Natività a Betlemme. Il portone in Strada Maggiore non supera il metro e 50 di altezza. Ci si deve far piccini al cospetto di Dio e Buscaroli, a modo suo, questo è: un dio. Della musica, del giornalismo, della storiografia, della polemica, dell’indignazione. Ed è appunto l’Indignato Speciale a intimorirti, mentre affronti lo scalone che su ogni gradino potrebbe allineare almeno otto persone. Incombe dalla sommità: «Non sarà venuto qui anche lei con l’intenzione di farmi passare per nazista?». L’ultimo è stato un inviato delle pagine culturali della Stampa, «un tipo pieno di capelli gialli, sicuro di sé». Hanno bisticciato subito. «Ha osservato che il libro Beethoven è il mio opus magnus. Ho dovuto correggerlo: guardi che opus è neutro, si dice magnum». Il peggio doveva ancora venire. «Sperava di farmi dire che la mia massima aspirazione era quella di diventare guardiano di Auschwitz. Ma si può? Un vero imbecille. Nel 1943 avevo 13 anni». Non mi è di viatico il ricordo del nostro primo e unico incontro, inizi del 1996, quando, da poco vicedirettore del Giornale, incrociai Buscaroli nella segreteria di redazione. Mi squadrò da capo a piedi: «Tu chi sei? Quello nuovo?».
È tornato al lei. «Lo vedremo verso la fine se è degno del tu». Mi sta andando già meglio di Mario Calabresi, il direttore dell’inviato biondo, colpevole di non aver tenuto presente che il padre Luigi fu commemorato da Buscaroli, all’epoca direttore del Roma, il quotidiano di Napoli dell’armatore Achille Lauro, con il conio di una medaglia commissionata allo scultore Francesco Messina (e con una sottoscrizione fra i lettori che raccolse «un bel mucchietto di denari» per la vedova e gli orfani del commissario di polizia assassinato da Lotta continua), e perciò destinatario di una lettera che, fra un «cialtrone» e un «pagliaccio», si chiudeva con un epitaffio: «Senza saluti e tanto schifo». C’era di mezzo Dalla parte dei vinti, il nuovo libro di Buscaroli, Memorie e verità del mio Novecento, 521 pagine di «materie disperatamente difformi», magari non il più caro, certo il più sofferto, «ho fatto diventar matto l’editore, all’ultimo momento volevo sciogliere il contratto, m’è costato un’ischemia moderata, un’ischemia Mondadori», 60 anni ci ha messo a scriverlo, altro che l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo che ne richiese 18, «però non s’azzardi a chiamarlo autobiografia: non lo è».
Giovanni Ansaldo, collaboratore della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti e poi direttore del Telegrafo di Livorno di proprietà della famiglia Ciano e del Mattino di Napoli, gl’impartì una lezione che non avrebbe mai dimenticato: «Scriva sempre tutto quel che le preme, non ha idea di come faccia presto la memoria a cancellare particolari importanti: bastano 24 ore». Una perizia calligrafica rivelerebbe la datazione originale, se non l’autenticità, di ciò che giorno dopo giorno, notte dopo notte, Buscaroli ha minuziosamente registrato, da cronista, nei suoi taccuini. Su uno appena cominciato, il 12 giugno 1955, si legge un’annotazione di Leo Longanesi: «Me lo riporti, quando l’avrà finito...». Il fondatore del Borghese, che nello stesso anno assunse Buscaroli come inviato speciale, aveva intuito subito che da quelle pagine sarebbe transitata la Storia.
Ed eccola qui, la Storia. Paolo Emilio Taviani che nel 1974 convoca a casa propria il nemico Buscaroli, nella speranza di ingraziarsi Giorgio Almirante e assicurarsi i voti del Msi, e gli rivela come se nulla fosse che «insomma, lei dovrebbe intendermi, dico che certe bombe, quelle attribuite alla sinistra, le abbiamo messe noi», noi chi, ministro? la Dc?, «ma no, noi, ministero degli Interni, mi capisce adesso?». La guerra nel Vietnam, seguita per sei estati: «Io parteggiavo per il Sud Vietnam, la Rsi locale, e per il generale Nguyen Cao Ky, che era stato decorato dai francesi in Algeria, un ufficiale con le palle come gli Stati Uniti non l’hanno visto mai, ed ero stupefatto di come le nuove generazioni crescessero bene in quel bagno di turpi guadagni e traffici immondi, di anno in anno vedevo ragazzine sempre più floride, più alte, più sane, più svelte, e giunsi a una conclusione prezzoliniana, disperante per un moralista: il vizio migliora la specie». La rivolta d’Ungheria: «A Budapest uno dei ponti sul Danubio viene ancor oggi chiamato Napolitano, per non dimenticare che nel 1956 il futuro capo dello Stato italiano proclamò come gli invasori sovietici avessero salvato la pace mondiale. Trent’anni ci ha messo a chiedere scusa».
Nella casa-museo di Buscaroli, un dedalo, l’unico modo per non perdersi è memorizzare la posizione dei Cesari nei medaglioni appesi sopra gli architravi, dei mobili stile impero, dei pianoforti, dei dipinti («questa è l’ultima tempera su carta di Mario Sironi, me la regalò la figlia, un fascio stilizzato sormontato dalla penna d’oca degli scrittori, nessuno aveva mai fatto caso alla similitudine»), delle foto d’epoca, del sorprendente ritratto di Osama Bin Laden in una cornice d’argento, soprattutto di alcuni dei 10.000 libri che a ogni passo, a ogni corridoio, a ogni anticamera, a ogni stanza ti guidano, ti assediano, ti soffocano.
Nell’ultimo salone, quello con le due sedie Biedermeier appartenute a Richard Wagner, c’è il pianoforte Érard del 1856 su cui suonò Johannes Brahms. «Me lo restaurò Fabbrini, lei sa chi è Fabbrini?». Veramente no. «Male, ora glielo spiego, queste cose un giornalista le deve sapere. Angelo Fabbrini era l’accordatore di Arturo Benedetti Michelangeli, tre anni ci ha messo a rifarlo nel suo laboratorio di Pescara, per portarlo su dalle scale c’è voluto una specie di cingolato leggero, con mezza Bologna ferma giù di sotto a guardare».
Compirà 80 anni fra qualche mese ed è come se avesse vissuto non una, ma dieci vite. Tutto il mondo gli è ruotato intorno e lui lì, sull’attenti, irremovibile. «Italia nemica, a fondo, sempre. Era la prima cosa che dicevo ai miei figli appena nascevano», tre volte ha ripetuto quel tragico giuramento.
Buscaroli non parla: esonda. Il 5 marzo 1970 fu costretta a occuparsene persino la Pravda - a ogni citazione ti sopraffà col suo dinamismo prensile nello scovare a colpo sicuro il ritaglio giusto da migliaia di agende, faldoni, scartafacci - «ecco qua, queste due paroline in caratteri cirillici significano Piero Buscaroli e qui c’è scritto che sono un mascalzone, mi assicura un esperto di interna corporis bolscevichi che il giornale ufficiale del Pcus mai usava riferirsi agli stranieri con nome e cognome». La Verità moscovita quella volta fece un’eccezione, non solo perché Buscaroli aveva denunciato sul Borghese l’intenzione sovietica di smembrare la Jugoslavia, ma perché se lo meritava: non ha mai stretto la mano a un comunista in vita sua, «e se dovevo andare in posti frequentati da canaglie, prima indossavo i guanti». L’unica volta che si lasciò afferrare «due dita in punta», ovviamente guantate, fu da direttore del Roma, quando, durante un processo nella pretura di Castel Capuano, lo ghermì alle spalle «un certo avvocato Iossa, o Fossa, consigliere comunale del Pci, che mi aveva denunciato per conto di una professoressa comunista e cieca e protendeva la mano piatendo 300.000 lire per rimettere la querela: “Direttore, voi siete umano, siete un signore...”».
È vero. Il Buscaroli umano, che non t’aspetti, è quello che alla fine dell’intervista decide di poter tornare a darti del tu. Lo stesso che la domenica delle Palme, accompagnato dai familiari, ha voluto «vedere la destinazione finale» a Monteleone di Roncofreddo, «è un bel cimiterino su un poggio», col geometra Zamagni che esaltava l’erigenda tomba di famiglia come «il sarcofago del fondatore» e col per nulla convinto futuro inquilino che raccomandava: «Né Madonnine piangenti, né simboli cristiani», ma non osava contraddire la figlia Beatrice, critica d’arte, che eccepiva: «Guarda babbo che la mamma vuole la croce».
La questione sepoltura non mi sembra attuale.
«Quello che chiamano Dio sa che scherzo mi ha fatto? Sì, insomma, quel qualcuno che tiene la contabilità ha detto: al Buscaroli abbiamo tolto dalla testa molti nomi, ma dopo un minuto e mezzo glieli restituiamo. Per cui ho affinato l’arte di divagare per 90 secondi».
Non la trovo affatto svaporato.
«Fino al 22 luglio, prima dell’ischemia, avevo una memoria nichelata. Mai smarrito un ricordo. Adesso arrivo davanti all’edicola e non mi sovvengo di come si chiama Il Sole 24 Ore. Non posso mica dire: mi dia il giornale rosa dei ragionieri. Aspetto».
Da dove viene la mitologica asprezza del suo carattere?
«Sono aspro quando voglio. Con quelli che non mi piacciono. Con i bugiardi. Con i comunisti».
Piero il Terribile.
«Lasci perdere il titolo del Foglio. Non mi ci riconosco. Semmai passo per eccessivamente accondiscendente. Mia moglie Maria Grazia ogni tanto mi fa l’elenco di quelli che ho salvato».
In che modo vi conosceste?
«Andando a trovare i nostri padri prigionieri nel carcere di San Giovanni in Monte. Neppure Giampaolo Pansa ha un’idea di che cos’è stata la vita di noi appartati, dispersi in tante tane».
«Vae victis». A lei, da vinto, che guai sono toccati?
«I partigiani hanno tentato tre volte di ammazzarmi. La mia unica preoccupazione era morire bene. Quando arriva quel momento, non reagisci. Ti acquatti e aspetti che tutto finisca. Mi salvarono due ufficiali polacchi che odiavano i comunisti. E poi la distruzione della famiglia. Quattro zii morti. Mio padre Corso, insigne latinista, incriminato per un reato inesistente. Era il miglior amico di Dino Grandi (il ministro che preparò l’ordine del giorno di sfiducia al Duce votato nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943, ndr). Da reggente del fascio di Imola non ebbe alcun ruolo nelle rappresaglie. Lo tenevano in galera dal giugno del 1945. Aveva fatto i calcoli: era sicuro di uscire presto. Il direttore del carcere nell’estate del 1948 lo convocò: “Professore, ho una brutta notizia per lei. Sono arrivati i conteggi: le restano da scontare tre anni”. Il babbo aveva una pressione delirante, 260 di massima, allora non esistevano farmaci. Cadde a terra, colpito da paresi. I conteggi erano sbagliati. A fine anno uscì. Tre mesi dopo era morto. Chiesi la revisione del processo. Fu assolto dalla Cassazione nel 1960».
Dino Grandi è la sua bestia nera.
«Il babbo me l’aveva dipinto come un asino che sbagliava persino a scrivere le parole, roba da non passare la licenza elementare. Nel 1918 era innamorato della sorella maggiore di mio padre, Illiria. Questa mia zia, vedova dell’ingegner Gino Cacciari e nonna di Massimo, il sedicente filosofo già sindaco di Venezia, fino all’ultimo cercò di farmi fare la pace con Grandi. Per meglio dire, era il conte Grandi che invocava disperatamente il mio perdono. Ma quello che pensavo di lui glielo misi per iscritto: “Giudico lei, signor conte, come l’altro conte, il genero (Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini, ndr), e tutti i soci, fucilati e scampati, per quello che avete fatto; e non per aver ‘tradito il Duce’, come ripetono i fascisti cretini, ma per aver consegnato l’Italia al Badoglio, che la consegnò a tedeschi, inglesi e americani. Senza il 25 luglio, signor conte, non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l’infame catena di assassinii che i coglioni chiamano ‘guerra civile’ e fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista. Per questo e solo per questo, signor conte, detesto lei e tutti i suoi soci. Voi avete distrutto anche quanto poteva salvarsi, altro che ‘salvare il salvabile’!”».
Grandi la pensava come Indro Montanelli: quando una guerra appare perduta, il male minore è accordarsi col vincitore.
«Quei due erano uguali. A me il feldmaresciallo Albert Kesselring ribadì invece che se il nemico t’impone una resa senza condizioni, non resta che combattere fino in fondo. La Germania e il Giappone seguirono questa via. Fu il maresciallo Pietro Badoglio ad abbandonare l’Italia nelle mani dei nazisti».
Lei non ha grande considerazione di Montanelli. «Lo stimo poco», si legge in Dalla parte dei vinti.
«Montanelli era la copia di Grandi anche in fatto d’ignoranza. Nell’unica pagina che ho letto dei suoi libri sulla storia d’Italia parla della corona ferrea custodita nel Duomo di Monza chiamandola “monile”. Un’ignoranza da far invidia».
Lo accusa d’aver costruito la sua popolarità su un’intervista con Adolf Hitler mai avvenuta e su una condanna a morte emessa dai nazisti, pure questa inventata.
«Da Montanelli non ho mai imparato nulla, se non che i moderati sono peggiori degli estremisti. Ricordo il giorno in cui mi accolse nella redazione del Giornale, allora alloggiata nel Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, fatto costruire da Benito Mussolini nel 1938 per Il Popolo d’Italia. Nell’atrio mi afferrò un braccio: “Qui Lui diceva... qui Lui faceva... qui Lui scriveva...”. Ma perché mi stringi il braccio? Che c’entro io? Basta! Lo avete glorificato, tradito, ammazzato. Per il Duce non nutro nessun sentimento, se non la pietà. Ti dirò di più, caro Indro: io sono stato fascista nonostante Mussolini, non per Mussolini».
Vorrebbe farmi credere che Montanelli doveva farsi aiutare da Mario Cervi a scrivere i libri di storia perché da solo non ne sarebbe stato capace?
«Da Cervi, da Roberto Gervaso, da Marcello Staglieno. Io non sono mai caduto nella sua rete. Finché una volta, a colazione al ristorante Bice, gli dissi chiaro e tondo: noi non siamo amici. Mi guardò assorto: “Hai ragione, non lo siamo”. E non siamo amici perché tu sei un traditore nato. Avrebbe voluto che fossi io a scrivergli il coccodrillo. Se lo faccio, ti rovino anche da morto, gli risposi. Invece avevo grande stima per Colette Rosselli, la moglie di Montanelli, che non si capacitava di questi miei impeti d’ira: “Sbagli ad arrabbiarti. Non hai ancora capito com’è fatto? Il suo lavoro, il suo articolo, e basta, non c’è altro”. Sa che cosa mi diceva di lui Leo Longanesi? “Quell’Indro finirà nel piscio”».
Oltre a Longanesi, chi sono stati i fari della sua vita?
«Il filosofo Lorenzo Giusso. Il maestro Ireneo Fuser, che fiutò in me un qualche intuito per l’armonia e il contrappunto e mi avviò allo studio dell’organo. Il pittore Ardengo Soffici. Il professor Giovanni de Vergottini, con cui mi laureai in giurisprudenza: m’inoculò la diffidenza per ogni storiografia che non sia incardinata nel diritto. L’anglista Mario Praz, che m’insegnò a distinguere la linea delle epoche, il bello e il brutto, gli stili. E poi Giuseppe Prezzolini, consigliere di tutti i miei comportamenti, il quale 12 anni prima che un erede putativo (Montanelli, ndr) si appropriasse della sua antica testata, disse all’editore Francesco Zuzic: “Oggi l’unico a poter dirigere La Voce forse è Pierino Buscaroli. Avrebbe un grande difetto, però: la scriverebbe tutta lui”. E infine Vittorio Cini. Che persona, che amico, che galantuomo! Lei lo sa che io non sono mai esistito in nessuna manifestazione ufficiale, mi hanno epurato perfino i musicologi?».
Immagino la loro gelosia per lo spessore, anche in senso fisico, dei suoi libri: 1.180 pagine Bach, 1.358 pagine Beethoven...
«Quando Cini scoprì che non m’avevano invitato a un congresso di studi su Ottorino Respighi che si teneva a Venezia sull’Isola di San Giorgio, casa sua, volle portarmici in motoscafo. Giunto il momento di dare il saluto ai convegnisti nel refettorio benedettino dove un tempo vi era la tela delle Nozze di Cana del Veronese, tagliata a pezzi da quel gran ladrone di Napoleone e oggi al Louvre, Cini si finse afono e cedette la parola a me. E quelli furono costretti ad applaudirmi».
Anche Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera dal 1952 al 1961, le ha voluto bene.
«M’insegnò che il giornalista non deve dare al lettore più di un’idea per volta e, se possibile, neanche quella. Era un fascista furioso. Una sera mi prese la mano e mi fece toccare il suo polso: recava la cicatrice di una sciabolata. “Lo senti? È il segno cesareo!”. Gliel’aveva inferto Mussolini in un duello nel 1921. “Sei il più grande”, mi diceva, “potrei fare la tua fortuna”. E in che modo? Assumendomi al Corriere? “Ma come, c’è già quel disgraziato di Montanelli, mica vorrai diventare il numero 2? No, tu devi andare in galera! Per salvare la patria”. Io gli rispondevo: direttore, questa fogna non la salva nessuno, e poi non ne vale la pena, sull’Italia io ci cago. È questo che mi ha sempre unito a Prezzolini: l’odio e il disprezzo per gli italiani».
Ma lei come diventò fascista?
«Non lo ero neanche nell’estate del 1943. Odiavo il sabato fascista, quelle gite assurde nel contado polveroso intorno a Imola, irreggimentati nelle nostre ridicole divise, la camicia nera col fazzoletto azzurro, la medaglietta di Mussolini, tutte cose che mi facevano schifo. Ce l’ho con l’Italia perché, mentre stavamo perdendo le ultime zolle insanguinate della Tunisia, i nostri istruttori durante le marce ci facevano cantare: “È la Marina / l’arma dei fessi / e l’Aviazione / pulisce i cessi”. La precocità è una dote che si perde col tempo. Compivo 13 anni il 21 agosto. Presi la carta da lettera più bella che trovai in casa e scrissi al federale di Bologna, Alfredo Leati. Mi fece rispondere dalla segretaria che non prendeva in considerazione i pareri di un bambino. Cominciai ad aborrire anche i federali. Venti giorni dopo ero rimasto l’unico balilla moschettiere. Fui promosso avanguardista perché non c’era più nessuno».
Siamo all’8 settembre: il proclama di Badoglio, l’armistizio di Cassibile, la Wehrmacht che occupa l’Italia.
«Come faccio a dirle che cosa furono per noi quei giorni? Non c’era mai stato tedeschismo nella nostra famiglia. Mio nonno Pietro era un socialista umanitario che sognava l’invasione della Svizzera e aveva chiamato Corso il primo figlio maschio perché voleva la restituzione della Corsica all’Italia. Mia madre era una Falorsi, i suoi antenati ghibellini avevano combattuto contro i guelfi nella battaglia di Montaperti menzionata da Dante, e aveva perso due fratelli di 22 e 20 anni sul Pasubio nella Strafexpedition del 1916. Un terzo era caduto nella riconquista della Libia. Le restava solo Carlo, il quarto, ferito due volte in Grecia, medaglia d’argento al valor militare, comandante della Scuola ufficiali di Ravenna. L’8 settembre ero a letto con la febbre. Udii un frastuono di pentole che proveniva dalla strada. Le donne urlavano: “È finita la guerra”. Il mio babbo mormorò: “Non sanno che cosa comincia”. Lo zio Carlo si ritrovò da solo con un pugno di uomini. Tutti i comandi militari erano fuggiti a Ortona Mare. Uno dei suoi soldati, preso dalla disperazione, mirò al collo dello zio e lo uccise con un solo colpo, poi si mise il calcio del moschetto fra i piedi e si sparò a sua volta. Ho odiato l’Italia e gli italiani da allora».
Capisco.
«Pochi giorni dopo al ponte sul fiume Santerno mi venne incontro una sagoma nera da Film Luce, due uomini, uno in sella alla motocicletta, l’altro seduto nel sidecar. “I tedeschi! I tedeschi!”. Tutti scappavano. Io solo gli andai incontro. Lasciai cadere la mia bici e feci il saluto romano. L’ufficiale balzò a terra e rispose col saluto romano. Uno scambio di cortesie da cancelleria del Reich. Ecco, mi guardi in faccia: mi fa ancora tremare quel momento. Fu la mia prima decisione da uomo. In quell’istante io diventai ciò che sono. Mi ero schierato. “Nach Ficarolo?”. Poveracci, s’erano solo persi, cercavano la strada per Ficarolo».
È ancora fascista?
«Fummo italiani. Eravamo fascisti per obbedienza, o familiare, o nazionale, o dinastica. Perciò non accetto che mi si dia del nazifascista o, peggio, del nazista, come ha osato apostrofarmi Massimo Cacciari. Feci condannare in un’unica udienza Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari davanti al tribunale di Roma per una simile affermazione. Esordii: signor giudice, non ho mai avuto bisogno di affidare il mio onore a un magistrato, so difendermi da solo, ma questa volta debbo ricorrere a lei, perché “nazista” non è più un giudizio politico, bensì un marchio demonizzante per cancellare una persona, per ridurla al nulla, è il peggio che si possa dire».
Ma Cacciari non si vergogna a portare al polso l’orologio che apparteneva al fratello della madre, fucilato dai partigiani?
«Me lo sono sempre chiesto. Cesare Momo era un tenente che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il comunistino sostiene che lo zio fu ammazzato durante la guerra. Falso! Venne trucidato dieci giorni dopo il 25 aprile, a guerra conclusa, senza alcuna motivazione militare. La distinzione fra strage e macello non è mia, è nel Dizionario di Niccolò Tommaseo, 1851: “Macello s’applica agli animali. Se è per uomini, indica strage più fiera, viene da rea volontà... Il macello va fino alla crudeltà, alla barbarie”. Fu macello, perché vennero massacrati con crudeltà i già vinti e senz’armi».
Che cosa servirebbe per porre fine alla guerra civile?
«La fine del popolo italiano. Non è degno di sopravvivere. La sconfitta della dittatura ha portato alla guerra permanente e alla tirannia del denaro che sta facendo morire la civiltà. Io credo che l’Occidente entro 20 anni sarà finito».
Non c’è speranza.
«La Lega è l’unica salvezza. Può spazzare via la classe dirigente tarlata che ci tiriamo appresso da decenni. Io non voto, sia chiaro. Ma ieri sera a Otto e mezzo su La7 era ospite Roberto Cota. Be’, ho visto una persona diversa, ho ascoltato un modo di ragionare nuovo. È stata una frustata. In quell’uomo parlava un’autenticità che non riscontro in nessun altro politico».
Non è mai troppo tardi.
«L’Italia è stata una finzione che la monarchia e il fascismo hanno potuto solo parzialmente migliorare. Mussolini ha trovato i Savoia e se li è tenuti, ha trovato gli Agnelli e se li è tenuti, ha trovato la Chiesa e se l’è tenuta, anzi l’ha fatta padrona d’Italia. Il fascismo è stato una delusione totale».
E che cosa pensa di Gianfranco Fini, presidente del Senato, secondo il quale il fascismo fu invece «il male assoluto»?
«Si può usare il pensiero per Gianfranco Fini? L’ho sempre spregiato. La gente non sa quant’è stupido. Però io mi considero più stupido di lui, perché insieme con l’ammiraglio Gino Birindelli volevo rovesciare Almirante, al quale scrissi che reputavo la sua presenza il massimo infortunio che potesse toccare al popolo disperso dei fascisti dopo Mussolini. Fini è il vero figlio di Almirante».
Perché questa disistima per Almirante?
«Per il modo indegno con cui sfruttava il suo ruolo di quasi martire. Mi espulse dal Msi accusandomi di non credere nella socializzazione. Io me ne sono sempre fregato degli operai. Pensavo che la Repubblica sociale italiana dovesse solo difendere il passato».
Incluse le leggi antisemite promulgate nel 1938?
«No. Quelle furono un orrore. Un’idiozia prim’ancora che un’infamia».
Però il titolo della Stampa le metteva in bocca una frase terribile: «Non voglio sapere se questo è un uomo».
«Ma per carità! Ho il volto di un individuo che può aver detto un’enormità simile? Nemmeno un cane risponde così. Non ho letto il libro di Primo Levi, tutto qui».
Il politicamente corretto non sa che cosa sia. Sugli omosessuali dichiarò al Corriere: «Sconsiglierei il termine gay. La destra dovrebbe chiamarli correttamente froci o checche. Andrebbero spediti in campo di concentramento».
«Quello fu l’agguato di una tal Latella (Maria Latella, attuale direttore di Anna, ndr). Stravolse il mio pensiero. Dissi che li consideravo degli infelici costretti a vivere come nei lager. È ben diverso. Io ho paura solo della nebbia, non certo degli omosessuali. Esecro chi vorrebbe ergerli a modelli di vita e costruire l’assetto sociale di una nazione sull’omosessualità».
Per lei i trapianti d’organo sono «macelleria di Stato».
«I medici si sono inventati una morte che non esiste, quella cerebrale. La morte è una sola, sa?».
Si considera un perfezionista?
«Non in tutto. Solo in ciò che m’interessa. Nell’Opera 111 di Beethoven, per esempio. E nella scrittura».
Allora perché in Dalla parte dei vinti ha scritto d’essere stato querelato dalla vedova di Mariano Rumor? Al massimo poteva essere la sorella.
«L’ho sposato postumo».
Si dichiara ateo e antireligioso, però suonava Bach nelle cattedrali. La musica non l’ha avvicinata a Dio?
«Non sono né ateo né antireligioso. Già la parola ateo mi fa venire l’orticaria perché mi ricorda Voltaire. Non credo nel monoteismo ossessivo delle tre religioni di Palestina, nel tonitruare d’insopportabili profeti, nell’imposizione di volontà malconosciute, nello scatenacciare porte d’inferni. Non sono né pro Dio, né senza Dio, anche se l’unico in cui credo è il dio Caso. Non ho mai detto ai miei tre figli di non andare in chiesa. Da me avrete imparato almeno la libertà, gli ripeto sempre. Non ho il senso della religione. Ma credo che sia necessaria come instrumentum regni per tutelare l’ordine e i buoni costumi, un modo per disciplinare i popoli. Dio ci vuole. Guai se tutti smettessero di credere in Dio, saremmo finiti. Meno male che c’è Dio».
Si sposò a Santa Maria delle Muratelle.
«Se è per quello sono anche molto amato dai giovani di Comunione e liberazione. Una volta il cardinale Alfredo Ottaviani mi disse: “Non credi in Dio, ma credi nella Chiesa, che c’è!”. Poi soggiunse: “Tu Dio non l’hai ancora conosciuto. Ma lo conoscerai. E finirai sugli altari”. Sono ancora qui che aspetto».
Le è mai capitato di chiedere scusa?
«Tutti i giorni. Nasco dalla giustizia, non quella dei tribunali. È l’unica cosa che è contata davvero qualcosa nella mia vita».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Come un buon padre. Ma come un buon padre sul serio, non solo la domenica». (Si ferma). «Ma poi non vorrei nemmeno essere ricordato».
(491. Continua)
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