Di Pietro preferisce gli euro a Veltroni

L’ex pm ha fatto i conti: se non entrerà nel Pd alle Camere farà incetta di rimborsi e finanziamenti. E nel Loft c’è già chi si pente della coalizione. Il leader Idv: "I nostri 43 parlamentari non saranno annessi"

Di Pietro preferisce gli euro a Veltroni

Roma - C’è chi aveva avvertito per tempo del pericolo-Tonino, e adesso non può che prendere atto che le sue fosche previsioni si sono avverate. All’ultimo vertice del Pd prima dell’accordo con Italia dei valori, Arturo Parisi implorò: «Io Di Pietro lo ho avuto in casa, nell’Asinello, e so cosa vuol dire. Consiglierei caldamente di evitare».
Non si evitò, e ora, a tre giorni dal voto, il solenne patto tra alleati è già saltato per aria. Il gruppo unico Pd-Idv non si farà. «Quarantatré parlamentari non possono essere semplicemente annessi», tuona Di Pietro. Che è stato lesto a farsi due conti: con i suoi eletti a Camera (29) e Senato (14), oltre ai 20 milioni di finanziamento pubblico che affluiranno in cinque anni nelle sue casse, ne arriveranno altri cinque (uno all’anno) se costituirà gruppi autonomi, cui vanno aggiunti i contributi per il personale, almeno una ventina di persone; un segretario di presidenza (con relative prebende, staff pagato e benefit, a cominciare dai 4mila euro di indennità in più per il fortunato); più un proprio capogruppo e un rappresentante in ogni commissione. Oltre alla richiesta, già sul piatto, di ottenere la presidenza di almeno uno degli organismi di controllo che verranno assegnati all’opposizione, magari il Copaco, che Di Pietro e Leoluca Orlando hanno un debole per i servizi segreti.
Per Walter Veltroni, che dell’intesa con Di Pietro si era fatto garante, non è un colpo da poco. E i primi a sottolinearlo, nei corridoi e a mezza bocca, sono da un lato i prodiani (che non dimenticano quanti guai l’ex pm ha causato al governo) e dall’altro i dalemiani. Tanto che i più sospettosi, nel Loft veltroniano, arrivano a insinuare che Di Pietro (che con D’Alema, ricordano, dai tempi del Mugello ha avuto spesso buoni rapporti) possa aver trovato una sponda alla sua ricerca di «autonomia» anche dentro il Pd. Con l’obiettivo di minare la leadership veltroniana e di disarticolare la sua strategia unitaria.
Si tratta ovviamente di umori e voci, magari fantapolitiche, ma servono a dare un’idea del clima teso che regna in casa democrat dopo il verdetto delle urne. Cui se ne aggiungono molte altre: c’è ad esempio chi sostiene che una telefonata (non un incontro) tra Veltroni e Berlusconi ci sia stata, e che uno degli oggetti principali sia stata la candidatura di D’Alema a sostituire Frattini nella Commissione Ue. Cosa che avrebbe fatto infuriare il ministro degli Esteri, che non ha alcuna intenzione di farsi esiliare a Bruxelles. E poi ci sono i boatos sui futuri organigrammi. A chi andranno le due postazioni chiave della prossima legislatura, le presidenze dei gruppi di Camera e Senato? In pista per la prima c’è Bersani, col sostegno di D’Alema, ma anche Fassino, che potrebbe avere il sostegno di Veltroni in funzione anti-Bersani. Giorgio Tonini, buon amico di Walter, ipotizza Morando per il Senato, nel qual caso la Camera andrebbe alla Margherita. Ma gli aspiranti sono ancora molti: Zanda, Treu e Chiti al Senato, Letta e Fioroni alla Camera. E la presidenza del Pd? A Marini, dicono dal Loft.
Intanto Di Pietro non ha perso tempo per mettere sul banco degli imputati il leader Pd, reclamando «un incontro immediato» per chiarire i termini dell’alleanza, e accusandolo di scarsa lealtà: «Ho appreso dai giornali che voleva fare il governo ombra», lamenta; e ancora: «Ha già incontrato Casini: se incontrava me, che sono alleato, era meglio». E poi giù una serie di condizioni sulla linea politica: «Quali sono le priorità sulla giustizia? E sul conflitto di interessi come intende battersi il Pd?». Pretesti, perché in realtà la decisione è già presa e Di Pietro farà i propri gruppi, tenendosi le mani libere (e i cinque milioni di contributi).
Fino a l’altro ieri, nel Pd ancora ci si illudeva: «Vedrete che lo convinciamo», assicurava il capogruppo uscente Soro ai suoi. Niente di più sbagliato.

E ora si prova a metterci una pezza: dal quartier generale veltroniano fanno trapelare che il segretario non vede quello di Di Pietro come «un tradimento», perché il patto era che il gruppo unitario si sarebbe fatto in caso di vittoria. Stando all’opposizione, è il ragionamento, tutto sommato conviene avere gruppi separati: «Avremo una voce in più in Parlamento».

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