Ironia della sorte, esattamente a dieci anni dalla morte in esilio di Bettino Craxi, Antonio Di Pietro, grande accusatore dell'ex segretario socialista, ha paura. Perché, abituato a fare il cacciatore, si trova a disagio nei panni del braccato. Lo scrive in una lettera pubblicata sul suo sito nella quale svela che circola, nei palazzi della politica e nelle redazioni dei giornali, un dossier su di lui. Il leader dell'Italia dei valori dice di conoscerne il contenuto: dodici fotografie che lo ritraggono, all'epoca di Mani pulite, insieme a uomini dei servizi segreti italiani e stranieri oltre che a due volti noti degli intrecci politico-giudiziari di quegli anni: Bruno Contrada allora questore di Palermo, poi ufficiale dei servizi (arrestato e condannato con infamanti accuse di collusioni con Cosa Nostra), e il colonnello Mori, il comandante dei Ros (gruppo speciale dei carabinieri che eseguì tra gli altri anche l'arresto del capo della mafia Totò Riina) pure lui finito poi nei guai giudiziari. Di Pietro va oltre, e anticipa che da questo dossier potrebbe emergere, falsamente, che lui era pilotato dalla Cia (i servizi segreti americani), che entrò in contatto con la mafia nella stagione dei veleni e delle stragi, che qualcuno lo pagò per fare la sua parte nella decapitazione della Prima Repubblica versandogli somme di denaro in banche americane e neozelandesi.
In quelle carte e in quelle foto che circolano clandestinamente si troverebbero insomma indizi che se non smontati dimostrerebbero come Mani pulite fosse un complotto internazionale e come Di Pietro non fosse il magistrato senza paura e senza macchia che ha voluto farci credere. Ce ne sarebbe abbastanza per riscrivere la trama, e i giudizi, degli ultimi vent'anni di storia italiana.
Sull'esistenza di tutto questo materiale e sul suo contenuto ci fidiamo delle parole dell'ex pm. Se lo dice lui vuole dire che è vero. Del resto lo stesso Di Pietro scrive che quelle fotografie potrebbero anche essere autentiche: «Magari, ma a vent'anni di distanza non ricordo tutte le circostanze sarà pure capitato - si legge nella lettera - che nelle pause di lavoro mi sia fermato a mangiare o a bere un caffè con loro... Che male c'è, non potevo certo sapere dei guai che sarebbero loro capitati anni dopo». Ora, a parte che è strano che uno non ricordi con certezza se ha mai incontrato due degli investigatori più famosi e discussi d'Italia (Contrada e Mori), a parte che fino a ieri ha sempre negato di averlo fatto (lo disse anche a proposito di Ciancimino ma fu sbugiardato in diretta tv), non si capisce, se tutto è così normale e coerente con la storia ufficiale, perché uno senta il bisogno di urlare al complotto. Se si tratta di semplici e innocue foto ricordo dovrebbe attivarsi per recuperarle e archiviarle nell'album di famiglia.
C'è qualche cosa che non torna nella mossa a sorpresa di Di Pietro. Questo mettere le mani avanti rispetto a una notizia di cui nulla si sapeva e che probabilmente non sarebbe mai stata pubblicata crea più sospetto che solidarietà. Anticipare addirittura la linea difensiva sa più di paura che di trasparenza. Lui dice che poteva non sapere chi erano o sarebbero diventati i signori che incontrava tra un arresto e l'altro. Strano, detto da uno che ha indagato e incarcerato decine di persone solo perché «non potevano non sapere», e che si accoppia a persone, come Travaglio, che aprono un processo mediatico contro il presidente del Senato, Renato Schifani, perché da giovane avvocato assisteva a Palermo personaggi che anni dopo si scopriranno essere mafiosi.
Il dipietrismo ci ha abituato alla doppia morale. L'immunità parlamentare che lui si tiene ben stretta come eurodeputato è uno scandalo se a chiederla è Silvio Berlusconi; la chiarezza assoluta nell'utilizzo dei finanziamenti ai partiti non vale per l'Italia dei valori, e via dicendo. Ma questo non basta a capire che cosa sta succedendo. E non basterà fino a che Antonio Di Pietro non racconterà al Paese la verità, tutta la verità e niente altro che la verità su tre fatti che lo riguardano. Il primo: come ha fatto un giovane poliziotto della bergamasca a laurearsi tanto rapidamente e a diventare magistrato? Il secondo: come ha fatto un inesperto pm a diventare improvvisamente il più bravo e importante della storia del Paese? Il terzo: come mai, all'apice del successo e del potere, abbandonò la toga per buttarsi in politica?
So che lui ha già risposto a queste domande. Riassumo in sintesi: sono bravo. Rispondo in sintesi: è vero, ma noi non siamo fessi. La storia di Mani pulite è ancora avvolta nel mistero e piena di buchi neri.
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