Il vecchio monito «se tira ledilizia tira tutta leconomia» è forse un po abusato ma nasconde una verità di fondo: difficilmente per lo sviluppo delloccupazione e della ricchezza si può fare a meno dellindotto creato dalle costruzioni, dato che da solo esso pesa circa il 10 per cento della produzione lorda nazionale. Potrà forse farne a meno la Milano dellecologismo neocomunista di Pisapia? Probabilmente no.
Il peso del mattone nelleconomia milanese che, storicamente difettando di risorse naturali o bellezze paesaggistiche da sfruttare, ha avuto come ricchezza principale nientaltro che la propria posizione geografica, è sempre stato grande. Un perfetto emporio, unarea a vocazione terziaria è normale che conviva con le gru: la vetrina deve essere sempre moderna, nuova, sfavillante. Per questo da sempre Milano si consuma e si ricostruisce, mantenendo qualche angolo di ricordi ma sempre proiettata verso il nuovo. Negli ultimi anni la trasformazione di Milano ha imboccato una fase nuova, salendo verso lalto, con i grattacieli che attirano gli sguardi dei passanti sotto i cantieri e impiegano migliaia di operai per la loro costruzione. Adesso da questi cantieri si guarda con preoccupazione alla rivoluzione di Palazzo Marino e ci si domanda cosa cambierà con il nuovo sindaco che, in modo esplicito, aveva promesso una «ripartenza da zero» rispetto al Piano di governo del territorio vigente. Non per niente tutta lindustria delle costruzioni è stata da subito definita come la grande sconfitta di questa tornata elettorale e i cognomi degli immobiliaristi famosi come Cabassi e Ligresti, i Catella o i Caltagirone, Hines e Bizzi vengono pronunciati da qualche ingenuo con un tono che ricorda molto l«Ei fu» di manzoniana memoria. In particolare, per Ligresti il contrasto fra i suoi progetti di espansione urbanistica verso il sud della città e i punti del programma di Pisapia che invece vagheggiano in quellarea prati orti e paperelle sembra del tutto inconciliabile.
Ma le cose stanno proprio così? Difficile. Se si dovesse prendere alla lettera lintento del nuovo sindaco che proclama al primo punto delle sue strategie urbanistiche la necessità di «smettere di crescere nel territorio e valorizzare lagricoltura di prossimità» staremmo freschi: Milano che punta sullagricoltura è come far puntare Piacenza sullalpinismo. È vero che la sinistra ci ha abituato a queste sciocchezze demagogiche mirate a colpire il «core business» dei territori in nome di un ecologismo da signori, vedi linfausta tassa sugli yacht inventata da Soru in Sardegna. In quel caso però i mancati introiti li avrebbe come al solito pagati Milano a suon di trasferimenti ma se anche Milano si mettesse a giocare con lorticello non ci sarebbe più qualcun altro a cui far pagare il lusso. È più probabile quindi che in realtà la grande rivoluzione sarà solo di facciata e che a Milano si continuerà a costruire tanto quanto prima, magari cambiando gli attori e infiocchettando di verde il cemento. La contraddizione era infatti evidente sin dalle prime riunioni per il programma di Pisapia quando si toccava il delicato tema dei parcheggi: con il sorrisone pacioso veniva spiegato agli astanti che in sostanza la Moratti cattiva voleva i parcheggi per far arrivare in centro più macchine con conseguente smog e morte (fischi e buu tra i convenuti) mentre lidea era quella di realizzare parcheggi per i residenti in modo da poter togliere le macchine dalle strade e far crescere pascoli e ruscelli (applausi a scena aperta). Oplà, riuscito il giochetto di prestigio: i parcheggi si faranno sempre, ma se da una parte erano brutti sporchi e di destra dallaltra saranno belli puliti e di sinistra. Nessuno che avesse alzato il ditino per osservare che un parcheggio è sempre un parcheggio, che è fatto di cemento e che si realizza scavando per terra.
Dato che probabilmente le cose andranno in questa direzione sarebbe carino se Pisapia cominciasse da subito a comunicare chi sono i costruttori e gli immobiliaristi «buoni» che, di certo, già stanno preparando cazzuole e betoniere.
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