ComoAdesso a Como la chiamano la «maledizione del lago». Così, da un mese in qua, si spiega il destino dei vivi che sul suo sfondo trovano la morte: anche quando la ragione andrebbe cercata oltreconfine. Beatrice Sulmoni, 36 anni, di Castel San Pietro in Canton Ticino: per due giorni fu la donna del mistero. Galleggiava a testa in giù, nuda e sgozzata. Moglie, madre, persona impegnata nelle attività sociali e in parrocchia: solo il giorno di Pasqua riacquistò la sua dignità e la sua storia, mentre il marito finiva in carcere per l'omicidio di lei incinta, e dinnanzi a quella colpa perfino il tentativo di occultamento del cadavere, gettato in acqua il 2 aprile e presto scorto da un uomo di Laglio mentre si avviava veloce verso la villa di George Clooney, per il momento passò in secondo piano.
Venti giorni dopo Rosa Item, il magistrato svizzero che raccolse la sua confessione, si trovava due chilometri più su, assieme a tre ispettori, per vedere il punto esatto dal quale Marco Siciliano, fisioterapista perbene, si era liberato del corpo della donna che era stata sua e che lo voleva lasciare.
È così che è morto Enrico Nobili, 53 anni, due figli e un titolo di campione nazionale di tennis: contro l'auto civetta della polizia svizzera che arrivata in Italia per indagare, a Brienno, tentava un'inversione. Con lo scooter gli si è schiantato addosso.
Venuti per un sopralluogo, tornati indietro con un uomo morto sull'asfalto e aprendo forse un caso diplomatico che rischia di opporre l'Italia alla Svizzera. La storia si ripete a parti invertite, e si aggrava stavolta. Sei mesi fa era stata l'Italia a far infuriare gli elvetici: se la cavò con l'accusa di «violazione della sovranità nazionale svizzera, abuso di potere, sostituzione nell'esercizio dell'autorità, messa in pericolo della vita altrui», parole scritte nel testo di un'interrogazione parlamentare dopo che una pattuglia della polizia locale di Como, il 19 ottobre, aveva varcato il confine e continuato l'inseguimento in corso. Caso chiuso in poche battute di biasimo, dure ma innocue perché, alla fine, non era andato storto niente.
Oggi invece c'è un motociclista ucciso da un'auto che non doveva incrociare, perché nessuno aveva autorizzato una prosecuzione delle indagini oltreconfine.
Non la Procura di Como, indispettita dalla violazione di una procedura che, dinnanzi a un incidente mortale con responsabilità gravi, acquista le sembianze di un affronto. Tanto più che quando il magistrato svizzero aveva domandato il trasferimento della salma da Como a Lugano, assieme alla carte del fascicolo già aperto, il pm Antonio Nalesso, titolare dell'inchiesta comasca sul ritrovamento del cadavere, aveva acconsentito nel giro di un mattino. La burocrazia complicata e i tempi d'attesa lunghi non sarebbero dunque neppure un timore buono per comprendere la trasgressione al codice, che obbliga a una richiesta di rogatoria internazionale per crimini che sconfinino oltre il territorio nazionale. Non contempla invece accertamenti in sordina e anonimato, come quelli in corso l'altro giorno su suolo italiano, né accordi informali o una semplice comunicazione dell'intenzione, al telefono con i carabinieri del comando di Como: così gli inquirenti elvetici avrebbero giustificato la loro presenza lì, alla stradale intervenuta subito e a Nalesso sopraggiunto poco dopo per comprendere, e incredulo.
Accusa di omicidio per l'uomo che era alla guida di un Seat Toledo «civetta», un poliziotto di 29 anni di cui è stata coperta l'identità; probabile disciplinare interno per gli altri occupanti della vettura, mentre l'Italia, finora, si è limitata a un'arrabbiatura senza conseguenze. Non è reato infrangere le regole, si mormora nei corridoi della Procura, che condanna però l'evidente scorrettezza.
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