Il pm che indaga su Silvio e quelle famiglie distrutte

Lui lucida il suo curriculum e se la prende con i giornalisti: «Ormai pubblicizzate solo le assoluzioni. Perché non parlate dei processi per pedofilia che ho vinto?». È vero, Pietro Forno, il pm di lungo corso che dall’89 si occupa di abusi sessuali, ha collezionato molti successi. Però, per stare al suo linguaggio calcistico ha anche incassato sconfitte clamorose. Sconfitte che si portano dietro una scia di dolori, sofferenze e umiliazioni. Si sa, quando si seguono casi così delicati, gli errori sono devastanti e i rimedi sono cerotti che non chiudono le ferite. A Forno è capitato addirittura il contrappasso di una requisitoria in aula che si è trasformata in un atto d’accusa contro il suo lavoro, i suoi metodi, i suoi consulenti.
Si tratta di una vicenda, quella del tassista Marino V., che a Milano ha fatto epoca. Metà degli anni ’90. Marino V. è un padre come tanti altri. Ma la figlia usa espressioni anomale per l’età, parla del pene del padre e la macchina giudiziaria si mette in moto. Un’assistente sociale costringe la moglie a denunciare il tassista: «O lo fa lei entro tre giorni o lo facciamo noi». L’esposto arriva a Forno che parte in quinta. Così l’uomo precipita senza potersi aggrappare a nulla: una sera torna a casa e non trova più nessuno. Gli investigatori hanno consigliato alla signora Teresa di scappare con la bambina. È una deportazione, basata su alcune parole in libertà dette dalla figlioletta. Ma il meccanismo infernale trova le conferme di quel che non c’è. Le perizie, fondamentali in processi di questo tipo, vengono affidate ad alcuni esperti collaudati, sempre gli stessi, di fatto tutt’uno con l’impostazione del pm. I tecnici trovano «segni compatibili con gli abusi sessuali». Che significa «segni compatibili con gli abusi sessuali?». È una frase su cui ci si dovrebbe interrogare a lungo, perché nel nostro codice il compito del pm è sì quello di accusare ma anche di cercare le prove, se ci sono, dell’innocenza. Forno, invece, non si ferma: le parolacce, l’assistente sociale, il perito, la compatibilità. Un trenino di suggestioni basate sul nulla o poco più. E una famiglia dilaniata.
Non basta la fuga segreta, come nei film di mafia. Ci si mette, in una catena senza fine, anche il tribunale dei minori che allontana la bambina dalla madre. E spacca quel che resta del nucleo. Passano gli anni, Marino V. è sempre sepolto vivo: gli affetti spazzati via e un capo d’imputazione terribile, confermato anche dalla seconda perizia.
Poi finalmente, dopo quattro lunghissimi anni, arriva il colpo di fortuna. Attenzione: non saltano fuori nuove perizie o testimonianze inedite. Semplicemente, in udienza, Forno viene sostituito, dalla ruota della giustizia, da una collega: Tiziana Siciliano. E in aula la Siciliano va giù dura, ma cambia il bersaglio. Non più il tassista crocifisso senza peccato, ma l’accusa. Il pm parla di una «perizia ginecologica di una superficialità che rasenta lo scandalo», di «interrogatori condotti in modo incongruo», di atti giudiziari trasformati «in carta straccia». E conclude radendo al suolo quel che resta: «Questi esperti non hanno alcuna professionalità. Non hanno nessun motivo di godere della fiducia dell’autorità giudiziaria, non hanno capito niente». Non hanno capito niente, ma sono stati utilizzati, e ovviamente pagati, a ritmi da catena di montaggio. La Siciliano, scrupolosissima, si accorge che su uno dei tavoli di questi esperti si sono accumulate 358 consulenze in nove anni.
Numeri da capogiro che spiegano meglio di tanti discorsi quel che è accaduto: quel circuito chiuso fra pm e consulenti di fiducia che qualche volta si trasforma in un cortocircuito. Marino V. viene assolto, la Siciliano dispone un’indagine bis, sui periti dello scempio, lo stesso Forno si ritrova oggetto di un esposto che però naufraga fra le secche del Csm.
Una sconfitta. Non l’unica. Nella bacheca del pm ci dovrebbero essere le vittorie. Ma anche le cadute. Le facce degli innocenti trasformati in mostri: Vito Cangialosi, accusato nel ’98 di aver violentato la figlia; Nikolin Ndreka, albanese, arrestato per violenza sessuale nel ’97, ingiustamente in carcere per nove mesi; la mamma e lo zio di Lissone, agli arresti domiciliari per un anno con l’imputazione, terrificante, di abusi su un bambino di cinque anni. Prima di rivedere la luce di un’assoluzione piena nel ’99.

E in un’altra inchiesta, pure finita in archivio, è il gip Guido Salvini a comporre un giudizio tagliente: «Di esito completamente negativo o del tutto irrilevanti... sono risultate le copiosissime intercettazioni, le perizie mediche, le perquisizioni».

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