Il pm che l’accusò di estremismo: «Io, fermato dai giudici di Milano»

La corte allungò i tempi e poi disse: «Quelle prove non sono necessarie». Così è crollata l’inchiesta

Li aveva sollecitati in aula infinite volte, con il rispetto che si deve a una Corte d’assise: «Signor presidente, vorrei sapere a che punto è la rogatoria in Marocco». Anzi, le rogatorie: perché oltre a quella indirizzata verso il Nordafrica ce n’era un’altra a Parigi. Elio Ramondini, il Pm che aveva costruito il processo contro l’imam di Varese e altri due suoi collaboratori, puntava tutto su Parigi e Rabat. Il dibattimento aveva assolutamente bisogno delle testimonianze di alcuni agenti marocchini e di altre persone residenti in Francia.
Niente da fare, quelle prove non sono mai giunte. Perché? Nessuno lo afferma esplicitamente, ma a Milano in Procura si sa come vanno le cose: le rogatorie non vanno solo inoltrate al ministero, ma vanno anche corredate, al momento opportuno, da telefonate a Roma per sbloccare l’impasse. Insomma, è la gestione burocratica della rogatoria ad aver ucciso il processo. Alla fine, Ramondini ha avuto le briciole e con le briciole non si confezionano le condanne; più di dieci deposizioni chiave sparite nel nulla. E un’attesa snervante che non porta da nessuna parte.
La rogatoria viene inviata il 17 luglio 2006; la risposta arriva al rallentatore, solo il 2 dicembre: la Corte d’assise, ligia alle forme, non la ritiene valida perché è partita dall’Interpol e la infila in un cassetto. Tocca al ministero che arriva fuori tempo massimo: il 18 dicembre dà notizia di un’udienza che in realtà si è già svolta in Marocco due giorni prima, il 16. Come rimediare?
No, non si può. Il primo febbraio il presidente Luigi Cerqua chiede notizie, nessuno gli risponde e allora Cerqua rompe gli indugi: il giusto processo deve svolgersi entro tempi ragionevoli, gli imputati sono detenuti e non è giusto lasciarli in carcere a oltranza, meglio stringere. Ramondini mastica amaro ma a quel punto gli tocca chiedere l’assoluzione dei tre, anche se gli elementi raccolti - ma non utilizzati - dicono tutt’altro: Abdelmajid Zergout e i suoi collaboratori hanno formato una scheggia del Gruppo islamico combattente marocchino, responsabile fra l’altro degli attentati di Casablanca del 2003, e dall’Italia finanziavano la rete del terrore. «Quelle prove non erano necessarie», dice la Corte d’assise nella sentenza ridimensionando, almeno in parte, il contributo che doveva arrivare dall’estero e non è mai arrivato. «Quelle prove erano necessarie», ribatte Ramondini impugnando il provvedimento in vista dell’appello.
Il Pm non lo scrive ma il messaggio che lancia è chiaro: «Si doveva fare in modo che quelle prove fossero assunte». Mancando quelle, tutta la costruzione si affloscia su se stessa. Ramondini contesta in modo tutto tecnico le decisioni dei giudici milanesi, sempre all’insegna del fair play, ma è chiaro che sottotraccia si vede il disagio di chi le ha provate tutte, ma è rimasto al palo. Nel verdetto, la Corte d’assise accenna polemicamente a iniziative «non sufficientemente meditate» del Pm che, nell’impugnare il divieto contraccambia gentilmente: «Non sufficientemente motivate sono le ordinanze della Corte d’assise».

Dialettica, come è giusto che sia, fra l’accusa e la Corte, ma anche la spia di diversi approcci per una pratica difficile: quando ci si affida alle normali corsie della diplomazia giudiziaria i risultati non sempre arrivano.

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