«Da pm dico: scandaloso scarcerarli»

Certe scarcerazioni facili hanno sconcertato pure lui. E oggi Maurizio Laudi lo spiega al Giornale: «Ci sono reati di una tale gravità che non è possibile dare subito, o quasi subito, ancora nella fase delle indagini, gli arresti a casa o, peggio, la libertà». Laudi è un nome che pesa nel mondo della magistratura italiana: è stato fino all’estate 2008 Procuratore antimafia a Torino e oggi guida la Procura di Asti. Non solo: svolge attività sindacale ed è segretario di Magistratura indipendente. Molti ruoli, compreso in passato quello di giudice sportivo, ma anche il coraggio di non eludere gli interrogativi che inquietano il Paese.
Dottor Laudi, alcuni recenti provvedimenti dei suoi colleghi non sono condivisi dall’opinione pubblica.
«In qualche caso lo stupore della gente è anche il mio».
A cosa si riferisce?
«La concessione così in fretta degli arresti domiciliari al violentatore di Roma non può essere condivisa».
Il ragazzo aveva confessato.
«Non importa. Ci sono reati gravissimi. E allora occorre valutare tutte le possibili implicazioni, le possibili conseguenze, tutto quello che può accadere scegliendo una linea soft».
Nel caso dello stupratore di Capodanno?
«Punto primo: se io gli do prematuramente i domiciliari, allora può essere che la vittima abbia paura e ad esempio smetta di collaborare con le forze di polizia perché non si sente più tutelata. Noi dobbiamo in qualche modo marcare la tutela dei diritti della parte offesa. Non possiamo far scattare i soliti automatismi e dire, almeno finché le indagini non si siano concluse, che il rischio di inquinamento delle prove non c’è più. E poi, diciamo la verità, chi va ai domiciliari non può essere controllato 24 ore su 24».
Può scappare più facilmente?
«Il rischio c’è. Certo, evadere dal carcere è più difficile che aprire la porta di casa e sparire da qualche parte».
D’accordo, ma la custodia cautelare non può essere un’anticipazione della pena.
«È vero e io non ho letto le carte del procedimento di Roma. Però per me vale lo stesso principio che ho applicato nel sequestro Vergani, in Piemonte, nell’aprile 2007».
Quale principio?
«Noi catturammo quasi subito uno dei sequestratori che confessò e fece il nome dei due complici».
A quel punto?
«Noi pm demmo parere contrario alla concessione dei domiciliari proprio per la gravità del fatto».
A Roma è successo il contrario.
«E infatti il gip non ha alcuna responsabilità. Il pm ha legato le mani al giudice».
Lo stesso buonismo riemerge al momento della sentenza?
«Sì. Spesso quando si decide la pena si fa il calcolo partendo dal minino previsto dal codice».
Un errore?
«A volte sì. Per la violenza sessuale la pena base va da 5 a 10 anni. È chiaro che per un palpeggiamento si può partire dal minimo, ma per certi episodi bestiali si deve stare sui massimi. Così per l’omicidio, dove l’oscillazione è fra i 21 e i 30 anni di pena. Invece, c’è questa tendenza ad appiattirsi sui numeri più bassi. In sede di appello, poi, è quasi un riflesso condizionato. E qui la magistratura dovrebbe fare autocritica».
Ma il giudice non ha un potere di scelta troppo ampio?
«Io sarei molto cauto nel modificare la norma sul punto. Ci sono situazioni diverse, ogni fatto non può essere sovrapposto ad altri, è giusto dare molta libertà al giudice.

Ma poi il magistrato deve usarla: qualche volta partirà dal minimo previsto, qualche volta dal massimo, altre volte si collocherà a metà strada».
Il giudice può interpretare i sentimenti della società?
«No, questo no. Però la toga non è un eremita. E deve saper cogliere l’attesa di giustizia che c’è nel Paese».

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