Basta prendere l’enciclopedia. O il vocabolario. Gravina: «Vallone a forma di profondo crepaccio, scavato nelle rocce calcaree». L’inchiesta sulla scomparsa di Ciccio e Tore Pappalardi forse doveva fermarsi e ripartire il giorno in cui qualcuno ha letto l’ordinanza che ha portato il padre dei ragazzini in carcere. Lì dentro c’è la dimostrazione del fallimento. C’è quel passaggio incredibile: «Resta un fatto insuperabile che Gravina di Puglia non è un comune d’alta montagna con crepacci, burroni e slavine pronti a seppellire per sempre i corpi dei malcapitati». Quell’ordinanza racchiude il paradosso di un’indagine che sembra aver corso parallela, più simile a un teorema che all’idea dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio». Un’inchiesta vicina alla realtà e incapace di incrociarla. Fuori dal mondo e dentro un disegno che a tavolino funzionava: un padre cattivo che fa sparire i figli e finge di essere distrutto. Il giudice in quella frase ha messo per iscritto le ragioni del disastro: Gravina si chiama così esattamente per le motivazioni che lui esclude. E agli investigatori non sarebbe servita neanche l’enciclopedia per scoprirlo. Lo sanno tutti i pugliesi. Chi ci è nato, chi ci vive, chi ci passa anche solo per un giorno: a Gravina ti avvicini e scopri che è tutta un fosso, un anfratto, un piccolo cratere che dentro sembra infinito. Una volta se ne aprì uno sotto i piedi, perché il terreno non tiene mai, è una frolla che si sbriciola. L’uomo l’ha anche usata per sé la leggerezza del sottosuolo. Ieri l’ha detto anche il sindaco: «Il territorio di Gravina è fatto così. Chiese e case rupestri dovunque. Ogni edificio contiene pozzi, cisterne, raccoglitori dell’acqua piovana, neviere». Il labirinto fatto di buche fa paura perché, al contrario di quello che sostiene quel foglio siglato dai pm, chiunque potrebbe essere inghiottito e non essere trovato più.
Bastava pensare che ai bambini capita di sfidare il pericolo. No. Impossibile la disgrazia, improbabile l’incidente. Evidentemente avevano deciso che in questa storia ci dovesse essere qualcosa di losco, per forza. Filippo Pappalardi era considerato un brigante. L’atteggiamento spavaldo, vecchie accuse di stupro, le voci sulle botte ai figli. Lombrosianamente colpevole: la faccia e i modi. C’entrava. E c’entrava talmente che la procura e il gip, in questi venti mesi, hanno preso in considerazione tutte le testimonianze che riguardavano lui. Quel padre può essere qualunque cosa, compreso un potenziale e credibile colpevole. Adesso, però, conta che l’atto d’accusa nei suoi confronti escludeva praticamente a priori qualunque altra ipotesi. Il gip scrive una dinamica plausibile e poi la esclude: «Una disgrazia occorsa al secondo che magari tentava di soccorrere il primo, per esempio caduto in un vascone...».
Gli investigatori dicono di aver seguito tutte le piste, compresa quella del furto di un gruppo di rom, quella di un rapimento, quella della ritorsione familiare. Poi hanno trovato l’assassino: l’hanno arrestato per intercettazioni vaghe perché Ciccio e Tore non potevano mica essersi persi nel vuoto. C’era quell’amichetto che diceva di averli visti con il papà. Poi c’erano anche i ragazzini che sostenevano di averli visti vicino a quella casa degli orrori, c’era la psicologa convinta che ai ragazzini piacessero, come a tutti quelli della loro età, giochi pericolosi. Scartato tutto, perché troppo banale. E quelli che sostenevano una vita familiare normale? Neanche presi in considerazione. Anche adesso che l’inchiesta sembra crollare, i magistrati continuano a cercare di far diventare quadrata una storia che è sempre più rotonda. Cercano di portare avanti la teoria. Ammettono che Ciccio e Tore possano essere caduti da soli, però «perché fuggivano dal padre». Fuggivano? In che senso? Boh.
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