Poesie di un bambino milanese

Giovedì il poeta Franco Loi compie ottanta anni. Ma è lui a farci un regalo perché in concomitanza con il suo compleanno pubblica «Da bambino il cielo», intensa autobiografia edita da Garzanti e che stasera presenta sul palco del teatro Franco Parenti. Annoverato tra i più importanti poeti italiani viventi, un passato da operaio e poi nell'ufficio stampa Mondadori, alle spalle raccolte poetiche pubblicate in tutto il mondo e una sfilza di riconoscimenti che sarebbe troppo lungo elencare uno ad uno, Franco Loi è soprattutto poeta di Milano. Non tradisca il cognome, di chiara origine sarda, né la nascita, il 21 gennaio 1930, a Genova: il piccolo Franco Loi conobbe presto il cielo della nostra città. Vi arrivò a sette anni, in autunno «e mi sembrava un paese, rispetto a Genova», che godeva del respiro infinto del mare. A Milano visse subito nella zona di Lambrate, poi si trasferì con la famiglia a Limito di Pioltello, di cui la madre odiava l'umidità e la nebbia. Poi di nuovo in città, in via Teodosio: Loi aveva 9 anni e leggeva «I ragazzi della via Pal» perché anche da noi «tutte le strade erano suddivise in bande di ragazzini». Ricorda: «Non c'è paragone con la vita che i bambini sono costretti a fare oggi. Non c'erano automobili e in via Teodosio svolazzavano farfalle e libellule, e di sera le lucciole, e potevi trovare rane, rospi e topi di campagna». Nel quartiere ci si conosceva tutti, spesso si lasciava la porta aperta e quello che oggi addolora l'autore di successi poetici come le raccolte Stròlegh e I cart è passeggiare per via Teodosio e vedere che tutte le case hanno le inferriate alle finestre. Passeggiare è un'altra parola chiave nell'autobiografia di Loi, che mescola vita privata (famiglia semplice ma dignitosa, matrimonio sereno, tante occupazioni diverse fino all'approdo in Mondadori e la scoperta della feconda vena poetica) ai grandi fatti del Novecento (la guerra, il boom economico, il '68). «Ho sempre camminato tantissimo. Non credo ci siano luoghi della città dove non sia stato», ricorda oggi Loi. C'è San Siro, «dove si andava in tram», l'Olona, «dove si tuffavano i ragazzini», la Villa Reale di Monza, dove un tempo c'era uno zoo con animali esotici.
Loi ha assistito a tutti i grandi cambiamenti di Milano, dall'urbanizzazione degli anni Sessanta al taglio del nastro della prima metropolitana («uno strumento utile, ma la usavo il meno possibile»). Poi, certo, anche il Sessantotto e gli anni di piombo. Milano per Franco Loi è sempre stata qualcosa di più di una città d'adozione, ché il poeta ha adottato fin dagli esordi «la sua musica», ovvero il dialetto, quale linguaggio prediletto delle sue liriche. «Quando ero bambino, camminavo per le strade e sentivo il milanese», spiega ricordando della voce lombarda il tono rauco («più attento ai suoni che ai significati», diceva un altro milanese delle lettere, Delio Tessa). Loi ha scelto di poetare in un dialetto molto libero, con personali invenzioni linguistiche e con una grafia vicina alla pronuncia, per facilitare la comprensione di tutti.

In questa autobiografia s'incontrano, pagina dopo pagina, i grandi della cultura meneghina del Novecento (Vittorio Sereni, Elio Vittorini), ma tra le riflessioni più intense c'è un ritratto, poetico ma affatto astratto, della «sua» Milano.

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