Il poeta Vendola ha cambiato "eroe": da Carlo Giuliani a Fini

Cantava il ragazzo morto durante il G8 e incalzava sulle responsabilità di Gianfranco. Che oggi diventa "antagonista ideale"

Calliope era la musa della poesia epica; Erato di quella amorosa, Euterpe di quella lirica; Polinnia aveva la specializzazione per la poesia sacra, Talia era laureata in quella bucolica. Per quella politica, invece, c’è la decima musa: Vendola. Abbellita di orecchino, cravatte chiassose e prosopopea insostenibile, la Musa Vendola fluttua nell’etere, sibilando metafore dalle platee dei talk show. Gli manca solo l’arpa, ma in compenso non si sottrae alla definizione di poeta del premio Nobel Knut Hamsun: «Un grande poeta è un uomo che non ha vergogna». E Nichi non arrossisce nemmeno se inanella un’incoerenza dietro l’altra.
Per esempio, l’aedo di Sinistra e libertà in questi ultimi mesi ha deciso di cantare del felsineo Fini l’ira funesta. E dalla sua personale cornucopia di sogni e miraggi sparge a piene mani aggettivi lusinghieri per Gianfranco: «Antagonista ideale», «personaggio rispettabile», «si batte in maniera lodevole», «avversario dei miei sogni», «guida perfetta di una destra costituzionale e liberaldemocratica». Un elogio, un inno, un cantico.
Epperò, se al trovatore si richiedono proprietà di linguaggio, sensibilità ed emozione, di sicuro non gli si chiede coerenza. Quella, magari, la si può pretendere da un governatore regionale che studia da leader nazionale. Per esempio martedì, quando Vendola a Ballarò ha puntato l’elegante dito contro i rapporti tra il Cavaliere e Vladimir Putin, «figlio del cuoco di Stalin», avrebbe potuto sovvenirgli che quel Putin è lo stesso che in veste di governatore Nichi accolse con tutti gli onori a Bari nel 2007. Lo stesso a cui il centrosinistra regalò la chiesa ortodossa di San Nicola, atto definito «straordinario» dal governatore in versi.
Ma il suo capolavoro di incoerenza - come detto - Vendola lo firma su Fini. Già, perché Gianfranco, che ora sembra una mitologica chimera tra la competenza del Principe di Machiavelli e l’ardore idealista di Cyrano de Bergerac, pochi anni fa non godeva della stessa stima da parte di Nichi. Il quale nel 2001 interrogava il Parlamento sulla presenza dell’allora vicepremier nel centro operativo dei carabinieri durante il G8. Quel brutto fascio, kapò senza divisa e sostenitore del massacro squadrista, ora è diventato più candido del giglio dell’innocenza cantato da Garcia Lorca. Magie della poesia.
La stessa poesia che pervase il candidato in fieri della sinistra all’indomani di quei tragici giorni di Genova, quando i versi divennero l’aiuto «per maneggiare con ironia e distanza i segni e il dolore del potere». Il suo Lamento in morte di Carlo Giuliani, pubblicato dai Fratelli Frilli, inizia così: «Lascia ch’io pianga muto/senza quel tuo limone/limone asfalto e sputo/astio del venerdì». Rima abac, echi mediterranei di Montale, la brutalità di un Kerouac, il silenzio ungarettiano, sì: ma l’estintore dov’è? No, troppo prosaico. Vendola ha occhi solo per «la morte all’imbrunire» (alle 17 del 20 luglio?), per «i carati spezzati del sogno tuo degli anni», per «l’ora del manganello» e «l’ostia di nuovi giorni». Toccante, va bene. Ma per quel dettaglio dell’estintore in mano? Ripassare a poesia conclusa, grazie. Qui si canta «l’arca del mai partire», «l’arco del tuo finire» e i «fumogeni a morire». E l’estintore? No, fa troppo futurista: il pugno, il salto mortale, lo schiaffo, la locomotiva, l’estintore. La lirica lo rigetta: «Al cor gentil rempaira sempre estintore» non suona bene.

E pazienza se qualcuno gli ricorda che Giuliani, da lui definito «eroe ragazzino», «eroe come Falcone e Borsellino», era più nichilista che bucolico e l’estintore lo puntava contro la camionetta dei carabinieri.
Non resta che sperare in Cocteau, quello per cui «la massa può amare un poeta solo per malinteso». Che dire allora di un governatore?

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