nostro inviato a Cannes
All'inizio, è tutta una festa e una celebrazione. Introdotti dall'annuncio stentoreo di Tierry Fremeaux, direttore artistico del Festival, uno dopo l'altro sfilano una trentina di mostri sacri della cinematografia contemporanea, e vederli tutti insieme, come una scolaresca riunita per il saluto di fine anno, seduti su delle poltroncine argentate, fa un certo effetto. Ecco il quasi centenario Manuel de Oliveira, il sempre verde Claude Lelouch, l'inquietante Michael Cimino, l'impassibile Takeshi Kitano.
Mancano solo Lars Von Trier, che nel suo film ammazza a martellate uno spettatore che lo disturba in sala, e Zhang Ymou, ovvero i film visti dagli occhi di un bambino.
L'occasione per riunirli gliel'ha data il presidente Gilles Jacob: tre minuti a testa per festeggiare i sessant'anni della rassegna e con essi le loro idee del cinema come mezzo d'espressione e luogo magico. Chacun son cinéma, dunque.
Nessuno dei registi ha visto i minifilm degli altri ed è quindi sui loro «corti» che vanno intervistati. Le domande, va detto, non brillano, ma anche le risposte lasciano a desiderare. De Oliveira, che è andato fuori tema, dice che «bisogna pur mangiare», Cronenberg che «il cinema non è più quello di una volta», Salles che è «un'avventura collettiva», Inarritu paragona il cortometraggio a «un incontro di boxe in cui non si può vincere ai punti, occorre il ko».
Il migliore è Konchalovsky, che riassume le difficoltà della mini durata con una citazione di Puskin. «Scusami per questa lunga lettera ma non avevo il tempo per scrivertene una breve». Alla fine Roman Polanski perde le staffe. Le domande sono stupide, ai giornalisti i computer ha inquinato il cervello, meglio andare a mangiare. La festa è finita, gli amici se ne vanno, che inutile serata.
Il quadro, quasi per un segno beffardo del destino, si completa in serata.
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