La polemica Immorale prestare le opere solo per fare cassa

Mi è sovente successo di ascoltare (e condividere) critiche molto dure alle “grandi” mostre da parte degli addetti ai lavori, ma anche di registrare (con qualche imbarazzo) l’apprezzamento di chi le ha visitate, espresso peraltro dal loro successo di pubblico. Un successo che rischia di far pensare che i “cattivi” siano gli esperti, presentati come gelosi protettori di un terreno che vorrebbero tenere libero dalle grandi folle, e invece “buoni” gli organizzatori delle mostre mossi dal solo desiderio di porgere la cultura alla gente in maniera moderna e comprensibile.
Nulla di più falso. La stessa logica che ha prodotto le mostre-spettacolo è all’origine della loro stessa crisi. A ispirarle sono stati infatti criteri di puro mercato che hanno portato a farle sempre più grandi, a proporre (ripetitivamente) le stesse formule, a investire sempre di più in comunicazione, con il risultato di fare arrivare il loro costo alle stelle. Senza riuscire ad autofinanziarle però (e questo chi le visita forse non lo sa) se non con l’aiuto determinante delle amministrazioni pubbliche. Oggi che questo sostegno viene meno il meccanismo si è inceppato e sono iniziati i problemi.
Problemi per gli organizzatori di mostre, abituati ad agire in un mercato drogato dal sostegno pubblico in grado di coprire il deficit organico delle attività culturali, incassando oltre i soldi dei biglietti, i contributi pubblici a tutto vantaggio delle loro casse, private; e problemi per gli amministratori pubblici che, privi delle disponibilità economiche di un tempo, non possono più farsi mecenati di eventi e attività la cui popolarità sembrava contenere, anche per loro, la magica ricetta del successo.
La ricetta, che peraltro è all’origine della crisi stessa della mostra veronese sul Louvre, è il prestito delle opere a pagamento. Com’è noto il Louvre si era detto disponibile a prestare i suoi capolavori a fronte di affitto di 4 milioni di euro, salvo fare un passo indietro prima di chiudere definitivamente il contratto. Pare, ma sono solo voci, su pressione di altri grandi musei, preoccupati dalle conseguenze internazionali di un fenomeno che, se praticato su larga scala, potrebbe mettere in crisi il circuito di prestito delle opere d’arte.
Di sicuro una ricetta di questo genere metterebbe fuori gioco i piccoli musei, privi delle risorse economiche per chiedere opere in prestito. Qualche imbarazzo lo darebbe anche ai grandi, costretti a fare scelte non tanto in base alla qualità delle opere, ma in base al loro prezzo. Ma il danno maggiore lo avrebbe il pubblico, che si potrebbe veder privato, nei musei, dei capolavori destinati a girare per far cassa, e nelle mostre, costruite non tanto a rigor di logica, ma di costo di locazione.
Nel sottrarre le opere d’arte al mercato, rendendole inalienabili, affermandone il valore esclusivamente culturale, i musei producono valore, reddito: un profitto che non è calcolabile in termini di biglietti venduti, ma nel tempo. Ci sono voluti centinaia di anni per accumulare il grande patrimonio che abbiamo e nei secoli esso produce benefici che non sono evidentemente solo economici, ma che attengono la qualità delle nostra vita.
Possiamo anche misurare i benefici che un museo, un monumento, una città, producono in un certo tempo, calcolando i profitti diretti e quelli indiretti, ma è ben più grande il profitto che esso ha nell’esistere e resistere nel tempo, perché il suo consumo da parte del pubblico, grazie al cielo, non lo consuma (a certe condizioni).


Se un direttore di museo si oppone al prestito di un’opera per una mostra, è consapevole del mancato profitto immediato che ne deriva all’organizzatore della mostra , ma sa anche che in questo modo garantisce un profitto enormemente più grande nel tempo. A guidarlo sono considerazioni tecniche ed etiche, ma questa etica corrisponde anche una visione economica. Diversa, ma forse più lungimirante e redditizia.
*Presidente di Icom Italia

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