La politica che rovina la cultura

Parliamo di cultura a Milano. Giovedì scorso Marco Romano, sul Corriere, osservava come su questo tema - e non da ieri ma da secoli - il potere pubblico si sia dimostrato, alla prova dei fatti, più distruttivo che costruttivo, e lodava l'assessore Sgarbi per le sue provocazioni salutari.
Alcune osservazioni erano molto suggestive e ci inducono ad altre osservazioni. La prima è che a Milano il contributo delle istituzioni pubbliche alla cultura è scarso se non deleterio anche per la pretesa della politica di fare essa stessa da soggetto culturale. Alle figure di primo piano, capaci di grandi cose ma giocoforza incontrollabili, sono stati preferiti quasi sempre gli amici, e gli amici degli amici.
L'invadenza della politichetta nelle scelte culturali è indice di debolezza politica. L'attuale amministrazione dà qualche segno di riscossa (anche se forse i segni che vedo io non sono gli stessi che vede Romano), però è bene ricordare che, in cultura, il concetto di «delega» dev'essere più ampio rispetto ad altri settori. Se continuiamo a ragionare col criterio della «quota parte» sono certo che non andremo molto lontano. Urgono scelte impopolari.
La seconda osservazione è questa. Se la politica non può pretendere di «fare» la cultura (anche se, onestamente, devo dire che spesso gli «amministrativi» capiscono di cultura più degli intellettuali di mestiere), può però porre alcuni obiettivi.
Un obiettivo prioritario, nella nostra città, ha un nome: eccellenza. O ci mettiamo in testa che le nostre principali istituzioni culturali - e ne abbiamo tante e di grande importanza - devono conseguire l'eccellenza nell'offerta e nel risultato, oppure ci dovremo accontentare dei soliti balletti tra una nomina e l'altra.


Milano ha l'eccellenza nella lirica (di conserva) e nella moda. Potrebbe averla in altri campi se la volontà dei politici si muovesse secondo il criterio non già dell'occupazione degli spazi ma del rispetto e della fiducia.

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