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La crescita passa dai capitali privati

Dopo una legge di bilancio inevitabilmente concentrata sulla messa in sicurezza dei conti, la prossima manovra dovrà essere impostata chiaramente sulla crescita

La crescita passa dai capitali privati

L'Italia non è un Paese povero di capitali. Al contrario, è una nazione che ha accumulato nel tempo una massa imponente di risparmio e patrimonio, distribuita tra famiglie, imprese e sistema finanziario. I numeri ufficiali parlano chiaro: 11mila miliardi di ricchezza netta, mentre la sola componente finanziaria supera 6mila miliardi. Una base patrimoniale che colloca l'Italia ai vertici europei secondo la Bce rappresentiamo il 16% della ricchezza complessiva delle famiglie dell'area euro e che smentisce definitivamente la narrazione di un Paese strutturalmente privo di risorse.

Il capitale, dunque, c'è. Il problema è un altro ed è ben più serio: l'Italia fatica da anni a trasformare questa enorme disponibilità di risparmio in investimenti produttivi, stabili e orientati al lungo periodo. È il grande paradosso italiano. Si accumula ricchezza, ma non la si mette sufficientemente al lavoro: in una parola, si risparmia molto più di quanto si investe nell'economia reale, nell'innovazione, nella crescita dimensionale delle imprese. Una contraddizione che ha un costo elevato in termini di sviluppo, competitività e occupazione.

Le responsabilità non possono essere attribuite genericamente al contesto internazionale o alle turbolenze dei mercati. Per oltre un decennio, la politica economica italiana ha preferito la gestione dell'esistente alla costruzione del futuro. Governi di ogni colore si sono concentrati quasi esclusivamente sul presidio dei saldi di finanza pubblica, rinunciando a disegnare una strategia capace di attivare il capitale nazionale. Il rischio imprenditoriale è stato scoraggiato, l'investimento complicato, l'immobilismo spesso reso fiscalmente più conveniente dell'impresa.

A questo approccio si è sommata, negli anni più recenti, una stagione di spesa pubblica scriteriata, al limite della follia. Misure come il Superbonus al 110% hanno prodotto un trasferimento di risorse di dimensioni straordinarie, senza selettività e senza effetti strutturali sulla produttività del Paese. Una montagna di debito generata per sostenere rendite e distorsioni, finalizzata a raccogliere consenso elettorale - in questo i Cinquestelle guidati da Giuseppe Conte sono campioni - che ha finito per comprimere ulteriormente gli spazi di manovra della politica economica.

È anche per questa eredità che l'attuale governo si è trovato costretto, nella prima fase della legislatura, a privilegiare il riequilibrio dei conti pubblici rispetto alla crescita. Non una scelta ideologica, ma una necessità. La stabilità politica garantita dall'esecutivo ha rappresentato un primo, importante fattore di fiducia, riconosciuto dai mercati e confermato dal forte recupero dei valori di Borsa registrato nell'ultimo anno anche grazie all'afflusso di capitali esteri.

Ma la stabilità, da sola, non basta. Dopo una legge di bilancio inevitabilmente concentrata sulla messa in sicurezza dei conti, la prossima manovra dovrà essere impostata chiaramente sulla crescita. E la crescita, viste le non illimitate risorse pubbliche, non può che passare dalla mobilitazione del risparmio privato: incentivi all'investimento di lungo periodo, regole chiare e stabili, semplificazione amministrativa, strumenti capaci di trasformare la ricchezza delle famiglie in capitale produttivo. Si pensi che, secondo stime accreditate, le risorse private che in potenza potrebbero essere destinate a investimenti produttivi si aggirano sui 1.400 miliardi.

È qui che emergono tutti i limiti delle critiche che arrivano dall'opposizione. Colpiscono, in particolare, le interviste rilasciate sabato da Stefano Bonaccini e ieri da Luigi Bersani alla Stampa: in esse i due esponenti del Pd liquidano la manovra in via di approvazione con argomentazioni che oscillano tra la contabilità spicciola e la retorica stanca della «mancanza di visione». Una critica che ignora, o finge di ignorare, il nodo centrale del problema italiano: la mancata attivazione del capitale privato. Tra le tante banalità elencate, colpisce soprattutto l'assenza di autocritica. Perché proprio quell'area politica ha lungamente governato mentre il risparmio privato restava blindato, mentre gli investimenti ristagnavano, mentre si moltiplicavano bonus e sussidi che drogavano il ciclo economico senza rafforzarne le fondamenta. Accettare un modello di crescita debole e rinunciatario e poi presentarsi oggi come custodi della visione, è un'offesa all'intelligenza degli elettori.

Le potenzialità del Paese, invece, sono evidenti. Il sistema bancario è solido, le famiglie italiane restano tra le meno indebitate d'Europa, il valore delle società per azioni si è consolidato verso l'alto. Ma senza una strategia coerente - prenda nota il governo Meloni, se non l'ha già fatto - anche una grande ricchezza resta ferma o prende la strada degli asset esteri, più semplici, più liquidi, più attrattivi. Sicché la vera sfida, oggi, non è trovare il capitale, ma convincere gli italiani a investire nel loro Paese.

Non è una scelta ideologica, ma una necessità economica. Perché senza investimenti non c'è crescita, e senza crescita anche la solidità finanziaria più invidiabile rischia di essere, ancora una volta, un'occasione mancata.

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