Europa, cosa manca alla ricetta Draghi

Per Draghi la competitività è questione non soltanto, ma anche di scala. Perciò la sua ricetta per accrescerla è la sempre maggiore integrazione del continente

Europa, cosa manca alla ricetta Draghi

Mario Draghi ha approfittato del Meeting di Rimini, l'altroieri, per suonare ancora una volta la sveglia all'Europa, come ha già fatto vari mesi fa col suo rapporto sulla competitività e come fa ormai ogni volta che può. Le premesse del messaggio sono ineccepibili, purtroppo: non c'è dubbio che il Vecchio Continente stia uscendo a pezzi da quasi tutte le partite geopolitiche degli ultimi mesi.

Quella che sta andando meno peggio finora è la vicenda ucraina, la più importante, malgrado l'esito resti subordinato alla buona volontà americana, ossia alla sgradevole imprevedibilità di Donald Trump. Ma proprio per conservarsi questa buona volontà, l'Europa ha dovuto piegarsi agli Stati Uniti in un accordo sui dazi che la penalizza, come ha puntualmente scritto ieri sul Giornale Gianclaudio Torlizzi, accrescendone la subordinazione al partner (o concorrente?) d'Oltreoceano.

Sul Medio Oriente, da Gaza all'Iran, ossia nel nostro cortile di casa, noi europei non stiamo toccando palla. La Cina ci tratta da potenza di secondo piano. È evidente, come ha detto Draghi, che ci siamo attardati a sognare un mondo commerciale, pacifico e cooperativo mentre quello si andava rapidamente sfaldando. Adesso che è morto del tutto, l'Europa si è finalmente svegliata, ma dopo trent'anni passati a sognare non è pronta né materialmente né psicologicamente alla nuova realtà.

Muovendosi nel suo ambito di competenza e riprendendo gli argomenti del suo rapporto, nell'intervento a Rimini il presidente ha messo l'accento sulla competitività economica. È giusto il metodo: cominciare a ripensare l'Europa a partire da questioni specifiche, come esortava a fare qualche giorno fa sul Giornale Gaetano Quagliariello. Ed è prioritario l'ambito: nel nuovo mondo in cui viviamo, certamente peggiore del precedente, la capacità di innovare, crescere e affermarsi sui mercati è diventata un parametro anche politico, una questione di libertà in un'arena internazionale sempre più brutale. Ma c'è un paradosso: Draghi apre il suo discorso denunciando l'illusione europea che conti soltanto l'economia e lo chiude evidenziando le gravissime debolezze economiche del Vecchio Continente. Qualcosa dev'essere andato seriamente storto, allora, se siamo tanto fragili proprio sul terreno cui abbiamo dato priorità.

Questa constatazione apre la via a tre considerazioni ulteriori. Per Draghi la competitività è questione non soltanto, ma anche di scala. Perciò la sua ricetta per accrescerla è la sempre maggiore integrazione del continente. Certo, ma se l'Europa oggi non è competitiva non è soltanto perché i singoli Paesi hanno pensato ciascuno ai fatti propri, è anche perché a Bruxelles si è sbagliato tanto. Perché la politica antitrust dell'Unione ha dato priorità alla protezione dei consumatori a scapito di innovazione e capacità di affermarsi sui mercati globali. Perché la lotta contro il riscaldamento globale è assurta a priorità assoluta e abbiamo penalizzato il motore a combustione interna vagheggiando un'alternativa elettrica che nel frattempo ci ha soffiato la Cina. Prima di chiedere più Europa, vale la pena chiedersi quale Europa, allora. Trasferire maggiori poteri a Bruxelles, se lì non cambia il modo di pensare, e in profondità, potrebbe soltanto aggravare il problema. Il rapporto Draghi contiene innumerevoli raccomandazioni su come riformare ciò che non funziona nell'Unione. Ma non contiene non può contenere nessuna garanzia che le riforme avvengano davvero.

La seconda considerazione è che siamo molto ma molto in ritardo, ahinoi. Il presidente ha invitato i giovani di Rimini a non farsi paralizzare dallo scetticismo ma a nutrire speranza e fiducia. Certo, se non ne nutrissimo almeno un po' non avrebbe neanche senso perder tempo con queste discussioni, ma se la speranza e la fiducia non sono sostenute da un solido realismo non ci portano da nessuna parte. E invece continuiamo ad aggirarci un po' troppo nella nebbia della retorica con la quale pure Draghi, giustamente, se la prende.

Infine, come spesso accade ai tecnocrati, anche se dotati di sensibilità politica, l'urgenza e importanza dell'obiettivo portano a sottovalutare alquanto la complessità del percorso politico necessario per raggiungerlo. Per Draghi i governi i singoli governi nazionali, non l'Unione europea devono «definire su quali settori impostare la politica industriale» e «mettersi d'accordo su come finanziare i giganteschi investimenti necessari in futuro, stimati in circa 1,2 trilioni di euro all'anno». Certo, ma in quali Paesi dell'Europa si svilupperanno quali settori, e in quali saranno localizzati gli investimenti? Sono questioni altamente politiche i cui effetti si riverberano sulle vite di milioni di persone, e i governi che le tratteranno dovranno risponderne democraticamente ciascuno di fronte al proprio elettorato nazionale.

Occorreranno dosi infinite di pragmatismo, lungimiranza, leadership e capacità negoziale per risolvere il puzzle: tutte qualità che un'Europa destatasi appena dal suo sogno esibisce oggi in quantità assai modeste.

Ci vogliono davvero tanta speranza e tanta fiducia per immaginare un colpo di reni. Ma pure su questo Draghi non ha torto, infine: quali alternative abbiamo?

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica