
C’è un momento, ogni autunno, in cui la politica italiana diventa un esercizio di equilibrio. Non è più il tempo delle promesse, ma quello delle cifre. I numeri, più delle parole, raccontano il governo, il suo coraggio e la sua paura. La manovra economica è la radiografia di un’anima: mostra dove si vuole arrivare e cosa si è disposti a sacrificare per non cadere. Questa sera, verso l’ora di cena, in un luogo ancora da definire, Giancarlo Giorgetti si ritrova attorno a un tavolo con i vertici della maggioranza. Forse ci sarà anche Giorgia Meloni, in collegamento. È un vertice che pesa più di molti Consigli dei ministri, perché da qui deve uscire la struttura della legge di bilancio che martedì approderà ufficialmente a Palazzo Chigi. L’obiettivo è chiaro: chiudere la partita senza troppi scossoni, perché ormai la stagione elettorale, che si chiuderà con le elezioni politiche del 2027, si è aperta e ogni pezzo della coalizione di centrodestra vuole mettere la firma su qualcosa di positivo.
Tocca a Giorgetti realizzare il miracolo di equilibrismo che tiene tutto senza spendere troppo. Il tempo è poco e le risorse ancora meno. Si parla di una manovra da sedici miliardi, un’ossessione per il 3 per cento di deficit, una promessa di rigore che convive con l’ambizione politica di non tradire il ceto medio. È su questo crinale che Meloni e Giorgetti si giocano l’anima del governo. Lui, il ministro, difende la credibilità dei conti. Lei, la premier, difende la credibilità di un mandato. È un gioco di ombre e di sostanza. La premier sa che un anno difficile l’aspetta: economia lenta, inflazione in frenata ma ancora dolorosa, famiglie stanche, imprese che si lamentano. E sa che l’unico modo per non perdere il filo con il Paese è dare un segnale visibile — una boccata d’ossigeno fiscale, un aiuto tangibile.
Ma l’ossigeno costa. E non ce n’è abbastanza per tutti. Così, il governo prova a costruire una manovra che cammini su due gambe: da una parte il taglio dell’Irpef fino ai redditi medi, dall’altra un’idea di pace fiscale che permetta di chiudere vecchie pendenze con il fisco senza scatenare una rivolta morale. Sono misure che piacciono all’elettorato di centrodestra, ma che rischiano di far storcere il naso a Bruxelles e. In mezzo ci sono i conti pubblici, la spesa sociale, il rebus delle pensioni e un bilancio che non può permettersi sbavature. La Lega chiede flessibilità per chi ha lavorato una vita e non vuole vedersi spostare la pensione sempre più in là. Forza Italia insiste sul sostegno alle imprese e sugli incentivi agli investimenti. Fratelli d’Italia punta sul ceto medio, sulle famiglie, sulla “fatica buona” del lavoro. È la mappa di una maggioranza che deve restare unita mentre si divide sulle priorità.
Giorgetti parla con la freddezza di chi sa che ogni concessione pesa un miliardo. Ricorda a tutti che l’Italia è osservata speciale, che le regole europee sui conti stanno tornando e che l’inflazione non è ancora sconfitta. Meloni, invece, guarda oltre la curva: sa che un eccesso di prudenza oggi può diventare una zavorra politica domani. È il suo istinto: non rinunciare mai al segno visibile, alla narrazione della concretezza. Martedì, quando il dossier approderà al Consiglio dei ministri, il governo dovrà dimostrare di avere trovato un equilibrio tra prudenza e ambizione.
Non sarà una manovra rivoluzionaria, ma una manovra “di confine”, come l’ha definita qualcuno vicino al Tesoro: dove finisce la contabilità e comincia la politica. Sarà il documento che dirà se Meloni vuole ancora sfidare l’Europa o preferisce allearsi con essa e decidere se questa manovra sarà fatta di prudenza o di speranza. O di tutte e due.