Per le pensioni serve il lavoro

Gli effetti della crisi demografica sul sistema pensionistico

Per le pensioni serve il lavoro
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La strategia è piuttosto chiara: dietro la possibile stretta sui tempi di erogazione del primo assegno a chi intende anticipare l'uscita dal lavoro avendone i requisiti, non c'è intento punitivo, bensì una necessità non più rinviabile per evitare il fallimento del sistema previdenziale.

Se è vero che l'effetto concreto dell'allungamento della finestra di erogazione è la menomazione di un diritto sacrosanto, non è però questo lo scopo primo del governo; lo scopo primo è rendere costose, e quindi scoraggiare, le uscite anticipate che sottrarrebbero contributi al sistema pensionistico. La ragione è semplice: la crisi demografica si sta rivelando più veloce di quanto temuto e l'ingresso nel mondo del lavoro di donne e immigrati (regolari) sta avvenendo troppo lentamente. E poiché le pensioni in essere vengono pagate dai contributi versati dai lavoratori, per tenere in piedi il sistema è necessario garantire che ci sia un rapporto di almeno 1,5 lavoratori per ogni pensionato. Ebbene, a quanto si apprende questo rapporto ora è a rischio. Non a caso il governatore di Bankitalia Fabio Panetta qualche giorno fa ha avvertito che nei prossimi 15 anni, a causa del calo demografico, si perderanno 5,5 milioni di lavoratori, mentre la speranza di vita continuerà a crescere ingrossando sempre più le file dei pensionati. Nemmeno è per caso che nell'ultimo Rapporto sulle previsioni della spesa previdenziale, la Ragioneria dello Stato abbia alzato l'età lavorativa da 64 a 69 anni: è l'unica strada, data la situazione, per provare ad assicurare il rapporto di 1,5 lavoratori per pensionato. Il solo modo per tenere in equilibrio questa voce è far lavorare più persone, anche allungando l'età lavorativa. E poiché il monte pensioni è il principale aggregato della spesa pubblica (pesa per il 45%) sul quale i mercati danno il loro giudizio quando devono valutare la sostenibilità del nostro debito, ben si comprende la doppia preoccupazione del ministro dell'Economia, che perciò farà di tutto per scoraggiare le uscite anticipate dal lavoro. Per questo quello che sotto la lente della statistica appare come il flop di Quota 103 a causa della scarsità di adesioni, agli occhi del ministro Giorgetti e della Ragioneria appare come un successo pieno.

Naturalmente ciò non consola i pensionandi che, qualora decidessero un'uscita anticipata, si vedrebbero negare stipendio e assegno per almeno sei o sette mesi a causa della sconsiderata gestione previdenziale dei governi che in passato hanno svenduto il loro sacrosanto diritto per qualche consenso in più. E allora vale domandarsi perché il governo Meloni, che pure già vanta non modesti risultati sul fronte dell'occupazione, non insista con più determinazione su questa strada rendendo ancor più feconde le politiche attive del lavoro oltre a favorire adeguamenti retributivi che il Paese attende da anni.

Mettere mano alle pensioni per far quadrare i conti senza che ciò rientri in una strategia di ampio respiro, è un esercizio che non ha mai portato del bene. E che rivela una debolezza che mal si concilia con le promesse di equità alla base della nascita di questo governo.

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