Politica estera

"10 trilioni di dollari": l'impatto devastante di una guerra a Taiwan

Bloomberg pubblica uno studio sui possibili costi di una guerra a Taiwan. Un'ecatombe economica per tutti i Paesi coinvolti che lascia intravedere qualche speranza

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Non succede ma se succede? Mentre a Taiwan vince il candidato autonomista Lai Ching-te e molti si interrogano su cosa cambierà negli assetti politici di quella che la Cina considera l’isola ribelle - ma che all'epoca della dinastia Qing veniva definita con toni sprezzanti come una “palla di fango” - Bloomberg Economics ha provato a calcolare i costi di uno degli scenari più temuti e discussi degli ultimi tempi: la guerra di Taiwan.

Il conflitto simulato

10 trilioni di dollari circa, pari a quasi il 10% del Pil mondiale. È questo il prezzo, difficile da immaginare, della peggiore delle escalation possibili. Un costo che fa tremare i polsi e fa sembrare dei blip economici calamità come la pandemia e la guerra in Ucraina. A chi appare scettico di fronte all'ipotesi presa in considerazione dalla rivista americana basta ricordare che nelle stesse ore in cui a Taiwan si sono svolte le elezioni legislative e presidenziali anche Pechino ha votato, a modo suo, inviando attorno all’isola otto jet e sei navi militari.

Bloomberg ha effettuato calcoli e stime su un cigno nero che colpirebbe un Paese centrale per l’industria mondiale dei semiconduttori e per il traffico marittimo internazionale concentrandosi su due eventualità differenti: l’invasione dell’isola ad opera dell’Esercito popolare di liberazione cinese (Pla nell’acronimo inglese), con conseguente ingresso degli Stati Uniti nel conflitto locale, e un blocco che isolerebbe Taiwan dal resto del mondo.

Nel caso in cui si verificasse l’opzione peggiore, Bloomberg stima un crollo del 40% del pil dell’isola, del 6,7% per gli Usa e del 10,2% a livello globale con effetti drammatici in particolare sul Giappone, la Corea del Sud e le nazioni del sud est asiatico. La stessa Cina non sarebbe comunque indenne alle conseguenze della guerra e delle sanzioni che l’Occidente imporrebbe vedendo crollare il proprio pil del 16,7%.

A confronto con questo scenario da incubo le ricadute economiche di un blocco di Taiwan imposto dalla Cina sarebbero inferiori ma per nulla trascurabili. Nel primo anno di isolamento Taipei subirebbe un tracollo del 12,2% del pil. La contrazione per Washington sarebbe del 3,3% e per il mondo del 5%. Pechino andrebbe invece incontro ad una riduzione del pil dell’8,9%.

La paura e la speranza

Il sospetto che la Cina intenda chiudere una volta per tutte il dossier Taiwan arriva dalle dichiarazioni del presidente cinese Xi Jinping che ha più volte affermato di non voler passare l’annosa questione “da una generazione all’altra”. Espressioni che si sono tradotte nella valutazione del capo della Cia William Burns secondo il quale il Pla avrebbe ricevuto l’ordine di prepararsi all’invasione entro il 2027.

Come riferisce l’agenzia economica, i Paesi del G7 hanno preso atto che la minaccia di un conflitto a Taiwan non sia un bluff nell’agosto del 2022 analizzando la reazione di Pechino alla visita sull’isola dell’allora speaker della Camera Nancy Pelosi. La Cina, infatti, rispose a quella che considerava una provocazione di Washington organizzando massicce esercitazioni militari interpretate dai leader occidentali alla stregua di prove generali per un blocco navale dell’isola di Formosa. Per correre ai ripari America, Germania e Giappone avrebbero quindi intanto avviato un processo di diversificazione delle fonti di approvvigionamento per i semiconduttori e alcuni importanti fondi di investimento avrebbero ridotto sensibilmente la loro esposizione nei confronti di Taipei.

Per gli esperti la Cina potrebbe tentare di forzare la mano tra gennaio e maggio, cioè quando entrerà in carica il nuovo presidente di Taiwan. Se però il barometro delle tensioni nello Stretto sembra indicare l’arrivo di una tempesta, è proprio la spaventosa analisi condotta da Bloomberg ad aprire alla speranza. Come si legge nell’analisi pubblicata dalla rivista, a scongiurare il pericolo della guerra sarebbe l'esorbitante costo della crisi “così alto da fornire a tutte le parti in causa un forte incentivo ad evitarla. Lo status quo potrebbe non essere il migliore dei risultati ma le alternative sono anche peggiori”. Solo il tempo a questo punto potrà dire se per Xi il prezzo per inglobare l’isola ribelle è davvero così alto.

E chissà se qualcuno avrà il coraggio di sussurrare cui prodest? all'orecchio del moderno imperatore cinese.

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