La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato con un margine schiacciante — 423 voti favorevoli e un solo contrario (quello di Clay Higgins, deputato repubblicano della Louisiana) — il disegno di legge che impone al Dipartimento di Giustizia di rendere pubblici tutti i documenti non classificati relativi al caso Jeffrey Epstein.
Il voto è stato effettuato attraverso la procedura straordinaria che richiede la maggioranza dei due terzi: un risultato che certifica un consenso trasversale insolito, reso possibile da una pressione crescente sia dall’opinione pubblica sia da parte di deputati di entrambi i partiti. L’approvazione è stata resa possibile anche dall’utilizzo di una petizione di scarico, uno strumento raro con cui un numero significativo di parlamentari ha forzato la leadership repubblicana della Camera, che inizialmente aveva ostacolato la proposta.
Il contesto politico è stato segnato da un’evoluzione particolarmente significativa: il presidente Donald Trump, inizialmente contrario alla misura, ha improvvisamente cambiato posizione dichiarando che firmerebbe la legge qualora raggiungesse la sua scrivania. Anche il presidente della Camera, Mike Johnson, pur definendo il testo "difettoso" e incompleto sul piano delle tutele, ha scelto di non bloccare il voto. È in questo quadro che il provvedimento, per mesi rimasto impantanato, è stato approvato con una rapidità insolitamente elevata.
Ora la questione passa al Senato, dove l’iter diventa più complesso. Il leader della maggioranza repubblicana al Senato Usa, John Thune, ha suggerito che il voto nella camera alta potrebbe avvenire anche stanotte, senza emendamenti, data la schiacciante maggioranza alla Camera. La composizione attuale dell’aula vede i Repubblicani in maggioranza con 53 seggi, mentre i Democratici ne detengono 45 e due indipendenti in caucus con i Democratici. In condizioni ordinarie basterebbe una maggioranza semplice, dunque almeno 51 voti, per approvare il disegno di legge. Tuttavia, la vera incognita è procedurale: per superare un eventuale ostruzionismo e portare il provvedimento al voto finale potrebbe essere necessario il ricorso alla “cloture”, che richiede 60 voti. La cloture è lo strumento che permette al Senato di chiudere il dibattito. Per approvarla servono tre quinti del Senato, cioè 60 voti su 100, indipendentemente dalla maggioranza semplice richiesta poi per approvare la legge. Se la cloture viene approvata, il dibattito si chiude dopo un tempo limitato e si può procedere al voto finale con la maggioranza ordinaria (51 voti).
Questo significa che, pur avendo una maggioranza numerica, i Repubblicani avrebbero bisogno dell’appoggio di almeno una parte dei senatori democratici o, quanto meno, della loro rinuncia a ricorrere al filibuster, la tattica parlamentare che permette a un singolo senatore, o a un gruppo di senatori, di prolungare il dibattito su un provvedimento a tempo praticamente indefinito, impedendo di fatto che si arrivi al voto finale. Non è necessario parlare ininterrottamente: oggi basta semplicemente dichiarare l’intenzione di proseguire il dibattito. Di conseguenza, se non c’è un accordo bipartisan, una minoranza numericamente insufficiente a vincere il voto può comunque bloccare l’iter del provvedimento.
Il leader della maggioranza repubblicana, John Thune, non ha ancora indicato se e quando il provvedimento verrà portato in aula. L’incertezza sulla calendarizzazione è uno degli elementi cruciali: anche in presenza dei numeri necessari, la decisione politica di procedere rapidamente non è scontata. Un altro punto critico riguarda la possibilità che il Senato introduca modifiche al testo. In tal caso la legge dovrebbe tornare alla Camera per una nuova approvazione, aprendo la strada a negoziati interni e a potenziali rallentamenti.
Le critiche interne non sono scomparse con il voto della Camera: alcuni esponenti, anche repubblicani, ritengono che il testo non tuteli adeguatamente le vittime né protegga in modo sufficiente materiali sensibili legati ad abusi su minori, un aspetto che potrebbe spingere alcuni senatori a chiedere emendamenti. Al tempo stesso, l’enorme sostegno bipartisan alla Camera riflette una crescente richiesta di trasparenza, che ha assunto negli Stati Uniti un rilievo politico e simbolico molto forte.
Intanto, il “ciclone Epstein” provoca un’altra conseguenza eccellente negli Stati Uniti: Larry Summers, ex segretario al Tesoro, si fa da parte dai suoi incarichi pubblici dopo la diffusione di nuove email che rivelano contatti imbarazzanti con Epstein. Summers ha ammesso errori e vergogna per aver continuato a comunicare con il finanziere anche fino al giorno prima del suo arresto, chiedendogli perfino consigli su questioni personali. Pur lasciando gli impegni pubblici, manterrà la sua cattedra ad Harvard, scelta che suscita polemiche.
È la prima figura americana di alto profilo a pagare conseguenze dirette per lo scandalo, nonostante la vastità delle presunte vittime e le pregresse rivelazioni sui rapporti tra i due, dalle donazioni ai voli sul “Lolita Express”.