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L'alba possibile del fine-guerra

Preferisco una pace mutilata a una guerra in piena salute con uno sterminio continuo in nome di principi che non finiscono mai di seppellire i propri figli

L'alba possibile del fine-guerra

Oggi a Miami, a Mar-a-Lago, c'è un appuntamento che somiglia a molti altri e che pure potrebbe essere diverso. Trump ospita, Zelensky c'è, gli europei stanno al telefono. Siamo vaccinati contro questi vertici annunciati come decisivi e

conclusi come inconcludenti, vedi l'«incontro storico» al centro della basilica di San Pietro durante i funerali di Papa Francesco, o quello altrettanto «storico» in Alaska il 15 agosto. In entrambi c'era Donald e, a dialogare con lui senza alcun sugo salvo la retorica, Zelensky e Putin. Ventinove punti tutti decisivi, no ventidue, ora siamo a venti. Mi accontenterei si asciugassero i punti, ma anche le virgole. Mi basterebbero due parole: «Non uccidere». Troppe volte abbiamo visto fotografie, strette di mano, comunicati salva-la-faccia. E tuttavia, questa volta, qualche segno c'è. Non una rivelazione, non un miracolo. Segni minimi, come le prime foglie su un ramo che per quattro anni è sembrato secco.

1) Qualche parola detta fuori copione da un vice ministro russo, sulla prossimità di un accordo; una strana uscita sulle tivù locali di Putin stesso, che rivendica l'«utilità» di questa guerra per preparare la Russia alle prossime, come se questo flagello in corso fosse alle spalle.

2) Zelensky chiede ovvie garanzie di non essere sbranato dopo la firma, ma indica vie d'uscita dignitose, tra cui un referendum popolare per accettare la mutilazione del territorio russofono del Donbass, purché finisca lì.

3) Trump vuole «andare a dama», infilare la palla nella buca del suo campo di golf. Non è una metafora raffinata, ma funziona: Trump gioca per vincere, e vincere per lui significa chiudere. Non amministrare l'agonia. L'abbiamo visto nei giorni scorsi con i colpi mortali inflitti agli scanna cristiani dell'Isis in Nigeria. I popoli russo e ucraino sono stanchi. Molto più dei loro capi. Le vittime sono mille e cinquecento

al giorno, sui due fronti. Mille e cinquecento bare quotidiane per una partita che nessuno può davvero vincere. I leader, invece, sono prigionieri della parte che recitano. Se cedono alle ragioni dell'altro, politicamente muoiono. Così si assediano a vicenda, in un duello immobile, mentre a cadere sono sempre gli stessi: soldati, civili, famiglie. I popoli vorrebbero smettere di contare i giorni, i capi devono continuare a contare i colpi. Lo ha detto con parole limpide Leone XIV nell'omelia di Natale: «Fragile è la carne delle popolazioni inermi, provate da tante guerre in corso o concluse lasciando macerie e ferite aperte. Fragili sono le menti e le vite dei giovani costretti alle armi, che proprio al fronte avvertono l'insensatezza di ciò che è loro richiesto e la menzogna di cui sono intrisi i roboanti discorsi di chi li manda a morire». Insensatezza! Nessuna estetica della guerra è più tollerabile dopo due milioni e passa di morti. È difficile aggiungere altro, se non il silenzio che quelle parole impongono a chi continua a parlare di strategia come se fosse un gioco. Si può nutrire stima per la resistenza eroica degli ucraini senza per questo cadere nell'egoismo vile di chi, dall'Occidente comodo e riscaldato, gonfia i muscoli dicendo che «combattono anche per la nostra libertà». È una frase che consola chi la pronuncia, non chi muore. Protrarre una guerra in cui i morti sono sempre gli altri è una forma elegante di vigliaccheria. E anche di ipocrisia. Non si tratta di premiare l'aggressione. Non si tratta di credere alle ragioni russe, pur se la Nato e l'America di Biden non mi paiono credibili quando si spacciano per la nonna innocente di Cappuccetto Rosso (Zelensky). Sta di fatto che la Russia non ha vinto, dopo quattro anni le unghie dell'orso zarista restano piantate sul 18-20 per cento dell'Ucraina: un piede, anzi due, in casa d'altri. È un fatto, non un'idea. Continuare a negarlo non cambia la realtà, la prolunga soltanto, attraverso il terrore dei droni su città qualsivoglia. A cui Kiev risponde con terrore simmetrico. E

la scia di sangue non fa in tempo a rapprendersi, che subito nuovi fiotti sommergono questi popoli. Basta così. A un certo punto una fine deve esserci. Non una pace giusta, che non esiste. Una pace possibile. Imperfetta, ma reale. Trump vuole chiudere, e non lo fa per filantropia. È urtante, Trump, anche quando gioca a golf. Ma ha un pregio raro: detesta le guerre senza fine. Le considera una perdita di tempo, di denaro e di vite. E in questo caso ha ragione. Certo, c'è chi dice: useranno la tregua per rafforzarsi, per preparare la prossima guerra. Può darsi. La storia è piena di pause armate. Gli imperi non smettono di cozzare perché firmano un foglio. Ma in quella pausa, almeno, non si muore. Le città non vengono bombardate. I bambini vanno a scuola. Gli ospedali curano e non raccolgono brandelli. I popoli riprendono fiato. E nessuno sa davvero cosa accadrà dopo. Chi lo dice mente, o finge di sapere. Io preferisco una certezza modesta: uno, tre, cinque anni senza morti. Preferisco una pace mutilata a una guerra in piena salute con uno sterminio continuo in nome di principi che non finiscono mai di seppellire i propri figli. Non chiedo soprassalti etici, ma realpolitik. La quale fa schifo quando giustifica i massacri. Ma in questo caso è benedetta perché serve a impedirli, consente all'umano di respirare un po'. Gli europei telefonano, ammoniscono, distinguono. Bravi. Ma il tempo delle parole è finito. Se c'è uno spiraglio, va preso. Anche se non ci piace.

Anche se ci umilia un poco. La pace non è una medaglia. È una tregua dalla morte. E oggi, a Miami, forse non accadrà nulla. O forse sì. Ma se anche accadesse solo l'inizio, un'alba di fine-guerra, sarebbe già molto. Sarebbe abbastanza.

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