Dopo 700 giorni l’estremo sforzo per salvare gli ostaggi

Sono ridotti come prigionieri di Auschwitz. Non possono morire

Dopo 700 giorni l’estremo sforzo per salvare gli ostaggi
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Oggi Ariel Bibas avrebbe compiuto 6 anni. Invece, col suo fratellino Kfir e la mamma Shiri sono stati uccisi da Hamas che li aveva presi in ostaggio. Israele non vuole arrendersi all’orrore imposto dal culto di morte di Hamas per gli ultimi 20 rapiti. Non può: l’intera guerra che ormai ha 700 giorni è stata combattuta all’insegna della liberazione dei rapiti, è stata rallentata, interrotta, modificata per questo. I soldati hanno combattuto come leoni, perdendo 800 fratelli, col sogno di liberare le creature agonizzanti detenute dai carcerieri. Ma questo non vuol dire occupare Gaza. Di questo si parla dal 2014, ma la possibilità di un’occupazione totale è remota e parziale. Anche se dalla riunione di ieri emerge la determinazione del premier a usare lo strumento di una presenza e di una guerra allargata per piegare il nemico. Si prevedono altre riunioni e un voto alla Knesset. Ieri nel gabinetto ristretto, Netanyahu, Ron Dermer ministro alle Questioni strategiche, Israel Katz ministro della Difesa e il capo di stato maggiore Eyal Zamir si sono incontrarti per rigirare la questione sotto ogni aspetto.
Ben-Gvir e Smotrich non sono stati invitati.

Hamas ha rifiutato ogni proposta di scambio, Israele ha messo in questi giorni, d’accordo con Trump, al primo posto la questione dell’aiuto umanitario anche se l’assalto di Hamas ai camion rende difficile la distribuzione alla gente. Della gente ad Hamas non importa nulla, il cibo è la sua arma di ricatto e arruolamento e i rapiti sono il suo oggetto più prezioso, mentre conta anche sul cieco sostegno dell’opinione pubblica internazionale che seguita a sostenerlo anche di fronte all’immagine dei rapiti ischeletriti. Ma Israele non lascia perdere: gli ostaggi stanno per morire di fame se non si agisce subito, e dunque ecco l’idea di andarseli a prendere dove non è mai stata: dentro la città di Gaza, nei mowassi, i campi densi di sfollati dal Nord.

Per la stampa internazionale la parola «occupazione» è un boccone ghiotto, che Israele abbia una fantasia imperiale: ma Gaza fu un frutto mai desiderato caduto dalla guerra di aggressione dell’Egitto nel 1967, nido di attacchi islamisti continui: il 15 agosto di 20 anni fa Sharon volontariamente e senza contraccambio se ne andò sperando in un buon vicino palestinese. Israele si trovò addosso un’entità omicida, Hamas. Occupare, tradotto in linguaggio odierno, vuol dire avventurarsi a combattere in nuove zone dove si pensa che siano tenuti i rapiti. Eyal Zamir è più cauto del gruppo, teme, come del resto tutta Israele, che combattendo si metta a rischio la vita dei rapiti si è detto che lui e Netnayahu siano allo scontro diretto. Zamir ha presentato il suo piano con i particolari sui luoghi di detenzione in cui l’esercito non è mai entrato, luoghi in cui si asserraglia ciò che rimane di Hamas, strutture delicate e zone umanitarie in cui si deve agire con la pinzetta per evitare la morte di innocenti e l’aggressione dei media internazionali.

Se Hamas non si decide ad accettare un accordo «si apriranno le porte dell’inferno»: ormai è un modo di dire questa frase ripetuta durante questi interminabili 700 giorni, un paio di volte da Trump, qualcuna dal ministro della Difesa Israel Katz, con giri di parole persino da Netanyahu. E la guerra è andata avanti con inesorabile crudeltà e lentezza, gli scambi hanno lasciato nelle mani mostruose dei terroristi 20 rapiti vivi, ridotti come prigionieri di Auschwitz, e 30 corpi che le famiglie esigono perché siano almeno seppelliti degnamente. Può darsi che tutta questa discussione sia solo un mezzo di intimidire Hamas.

C’è anche forse la consapevolezza che per l’islam estremo il controllo territoriale è l’unico

argomento valido, mentre la morte dei suoi shahid è parte della guerra che ha scelto contro l’Occidente. Che strano: l’Occidente non ama la morte. Ama la vita, come Israele. E Israele cercherà i suoi rapiti, vivi e morti.

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