Carlo Invernizzi-Accetti, politologo, è professore ordinario alla City University of New York e visiting professsor alla Columbia University. Esperto di storia delle ideologie, il suo ultimo saggio è «Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica» (Mondadori).
Professor Invernizzi, cosa ci dice l’assalto a Trump?
«La rabbia in tutta la storia della filosofia ha una logica circolare, monta su se stessa e in corso di questi vent’anni c’è stato un processo di “montaggio”. Alzando i toni, la rabbia di qualcuno nutre quella degli altri e continua ad aumentare. Siamo dentro una logica di escalation progressiva. Adesso è il punto peggiore negli States, ma questo aumentare i toni da parte di sinistra e destra era già successo in Italia con Berlusconi».
Lei vede un’analogia. Da cosa dipende?
«Chi è inizialmente campione di questa rabbia intercettata spesso poi ne diventa oggetto. Pensiamo anche a Grillo in Italia nel 2013, diceva di voler aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, ora sono loro il tonno, i 5 Stelle, diventati oggetto della rabbia dei loro ex sostenitori».
Trump ha cestinato il discorso incendiario che aveva in tasca. È un segnale positivo?
«Oggi Trump è bravo a capire che serve un discorso di unità per capitalizzare, non ho fiducia che affronti alla radice questa rabbia diffusa. La rabbia è manichea, vede in bianco e nero, amici e nemici, tende a dividere il mondo, servirebbe il rispetto della minoranza. Se ti alieni la minoranza ti trovi le proteste, bisogna poi certo che ci sia un’educazione del pubblico ai valori della democrazia».
Cioè, chi vince deve potere applicare le misure per cui è stato eletto, o no?
«È stato un errore della sinistra americana il fatto di non aver mai accettato la legittimità di Trump. Come la sinistra italiana, che ha sempre cercato di liberarsi di Berlusconi per via giudiziaria, anche quella americana lo fa con Trump oggi. I nemici di Trump devono accettare che ha diritto di governare, se vince, lui o chiunque. Però poi nello Studio Ovale lui deve imparare l’arte del compromesso di cui noi italiani siamo maestri, e in cui americani e francesi faticano perché la loro cultura è quella dell’alternanza».
Chi capisce di più l’America di oggi fra i due?
«Trump è più a contatto con la pancia del Paese, anche come ha reagito a quest’atto, è stato impressionante, cade, si rialza, chiude il pugno e si connette con la folla, capisce le esigenze, il problema è che è inadeguata la logica del nazionalismo populista che avanza, e cioè cosa fa? Trump include certi nel suo discorso, al prezzo di escluderne altri. La sua formula basata sul nazionalismo maschio, bianco, rurale, un populismo di quel tipo finirà per fomentare altri. Col Make America Great Again aveva colto che c’era un problema di riconoscimento di una certa parte dell’America, ma il problema sta nella risposta, che concentra tutto nella figura nel leader».
Interessano ancora a qualcuno i programmi?
«Sulla sostanza, Trump e Biden non sono così in disaccordo.
Se si guarda alle politiche economiche, migratorie, Biden ha preso molto dall’agenda Trump, differenze più simboliche che sostanziali, e proprio a causa di questa desostanzializzazione del dibattito i toni si alzano, attacchi non sui contenuti ma sulla la persona, una politica senza contenuti precisi è tossica».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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