Donald Trump è un tipo creativo con una spiccata tendenza a personalizzare le sue invenzioni, come nel caso della torre che porta il suo nome, ma non ha inventato lui l'approccio iper-personalizzato alla diplomazia che sistematicamente ignora le regole del protocollo e, cosa ancora più importante, le dottrine consolidate di politica estera. Ha invece imparato tutto dal primo ministro giapponese Abe Shinzo.
Durante la sua prima campagna elettorale presidenziale del 2016, Trump aveva già manifestato la sua estrema insoddisfazione nei confronti degli alleati che approfittavano del fanatismo americano per il libero scambio (nonostante gli enormi deficit commerciali) per negare agli esportatori statunitensi l'accesso ai propri mercati, inondando al contempo gli Stati Uniti con le proprie merci; altrettanto, aveva esplicitato il fastidio anche nei confronti degli alleati che «parassitavano» sulla protezione militare degli Stati Uniti, spendendo pochissimo per la propria difesa, in molti casi nemmeno il 2% del Pil.
Il Giappone era chiaramente nel mirino su entrambi i fronti, perché gli ostacoli strutturali alle importazioni statunitensi persistevano anche dopo anni di negoziati e perché non stava nemmeno cercando di raggiungere il livello del 2% del Pil, anzi si fermava al di sotto dell'1%.
All'epoca avevo un contratto con il ministero degli Esteri giapponese, non per fare pressioni sul governo degli Stati Uniti o cose simili, ma per aiutare a ridefinire la strategia nazionale del Paese. Era l'obiettivo personale di Abe, quindi lo incontravo ogni volta che tornavo a lavorare a Tokyo. Fu lui stesso a confidarmi quanto fosse preoccupato per la possibilità di una vittoria di Trump, un problema più grave per lui che per altri leader mondiali, poiché Obama gli aveva già causato inutili problemi, tra cui l'invio di Caroline Kennedy come ambasciatrice a Tokyo. La Kennedy, una celebrità senza arte né parte, aveva svilito una carica precedentemente ricoperta da eminenti ex presidenti della Camera o leader della maggioranza al Senato, che i primi ministri giapponesi potevano consultare con profitto. Inoltre, la Kennedy si era presa la libertà di criticare pubblicamente Abe per aver visitato il santuario nazionalista di Yasukuni, molto caro al suo elettorato di riferimento: un'impertinenza senza precedenti per un ambasciatore.
Fu in quella situazione difficile che Abe decise di ignorare tutte le regole del protocollo, di mettere da parte la tradizionale cautela del ministero degli Esteri e persino la legge statunitense per cercare di incontrare Trump il prima possibile dopo la sua elezione a sorpresa e molto prima dell'insediamento. L'obiettivo era cercare di spiegare - in modo abbastanza veritiero - che il suo obiettivo generale era quello di rendere il Giappone un alleato molto più forte e migliore per gli Stati Uniti, in modo da prevenire le politiche anti-giapponesi prima ancora che fossero formulate dal «team di transizione» di Trump.
E così, nel pomeriggio del 17 novembre 2016, Abe, accompagnato dal suo interprete, incontrò il neoeletto Trump nel suo appartamento di famiglia nella Trump Tower, insieme alla figlia Ivanka e al genero Jared Kushner, tutti comodamente seduti su divani, senza prendere appunti e senza funzionari in vista. Questo non solo creò un'atmosfera propizia, ma fornì anche una protezione legale contro il Logan Act statunitense, che vieta ai privati cittadini statunitensi - compreso Trump prima dell'insediamento - di negoziare con governi stranieri.
In effetti, Abe apprezzava il comportamento di Trump e viceversa, ed entrambi credevano alle rassicurazioni dell'altro: entrambi sarebbero intervenuti ogni volta che le rigidità dei funzionari di entrambe le parti avessero permesso alle incomprensioni di sfuggire di mano. In realtà, negli anni successivi non ci furono litigi tra Stati Uniti e Giappone e, nell'immediato, la notizia che arrivò da Tokyo dopo l'incontro di New York fu che Abe riteneva Trump molto ragionevole e un partner negoziale migliore rispetto al compassato Obama.
Fu proprio questo feedback a convincere Trump che poteva ignorare le riserve del Dipartimento di Stato, proprio come Abe aveva ignorato il suo famoso ministero degli Esteri eccessivamente cauto, per superare le barriere diplomatiche e negoziare faccia a faccia con le controparti straniere, come aveva fatto tante volte fin dalla sua giovinezza per portare avanti i suoi ambiziosi progetti di costruzione. Oltre ad incontri meno memorabili, durante il suo primo mandato la diplomazia personale di Trump è culminata nell'incontro senza precedenti del 30 giugno 2019 con Kim Jong-Un della Corea del Nord, proprio sulla linea di demarcazione della zona demilitarizzata. Una linea che Kim ha invitato Trump ad attraversare, rendendolo l'unico funzionario statunitense ad aver messo piede sul suolo nordcoreano. Una scena di cordialità ripresa in diretta televisiva, mentre gli operatori si azzuffavano dietro le telecamere.
In seguito, in una sorprendente dimostrazione di amnesia collettiva, i critici di Trump hanno continuato a sostenere che l'incontro Trump-Kim non avesse portato a nulla, perché Kim si era rifiutato di rinunciare alle sue armi nucleari, dimenticando come tutto fosse iniziato, ovvero con un allarmante aumento delle minacce di guerra contro la Corea del Sud, che Trump aveva disinnescato offrendosi di incontrare Kim.
Ora Trump è di nuovo in viaggio in Asia per disinnescare un altrettanto inquietante cumulo di minacce reciproche, ma questa volta la Corea del Nord rimane tranquilla come lo è stata sin dall'escursione di Trump nella zona demilitarizzata del 2019, mentre c'è stata una crisi molto più grave con la Cina di Xi Jinping. Dopo le crescenti minacce contro Taiwan e persino un piano di invasione con data specifica nel 2027, da mesi è in corso un'escalation geoeconomica a tutto campo, dal boicottaggio politico letale delle importazioni cinesi di soia statunitense, le cui esportazioni verso la Cina sono passate da 985 milioni di bushel nel 2024 a zero finora nel 2025, alla revoca da parte degli Stati Uniti dell'esenzione tariffaria sui piccoli pacchi - un tempo fissata a 200 dollari, ma più recentemente a 600 dollari. Questa misura in particolare ha permesso un'ondata di importazioni di abbigliamento e gadget per corrispondenza a prezzi estremamente bassi, che ha messo fuori mercato molti piccoli produttori statunitensi. Questa escalation è culminata nel tentativo cinese della scorsa settimana di limitare i prodotti statunitensi che possono essere realizzati con terre rare raffinate importate dalla Cina, un'intrusione senza precedenti che ha incidentalmente messo in luce anni di paralisi politica, poiché le «terre rare» non sono poi così rare e sono solo le restrizioni ambientali irragionevoli che di fatto impediscono la lavorazione negli Stati Uniti.
Come al solito, Trump si è preparato all'incontro adulando Xi Jinping con elogi non ricambiati e complimenti esagerati, ma è anche pronto a dare battaglia con i dazi che ha imposto, che pesano davvero molto sull'economia cinese, i cui molti anni di crescita ultra-rapida sono ormai solo un ricordo sbiadito. In tutta la Cina, la classe media che ha investito i propri risparmi in appartamenti da affittare (perché i depositi bancari non fruttavano praticamente nulla e il mercato azionario faceva perdere denaro agli investitori) deve affittarli a prezzi molto bassi perché sono stati costruiti troppi condomini fino a quando il boom edilizio si è fermato, ormai troppo tardi. Con l'arresto anche degli ingenti investimenti cinesi in ferrovie e strade (troppi treni ad alta velocità viaggiano vuoti), i genitori di molti giovani con scarsa istruzione che non riescono più a trovare lavoro nell'edilizia devono mantenerli, e i giovani ben istruiti che un tempo trovavano subito un buon lavoro oggi riescono a trovarne pochissimi. In altre parole, la Cina è sovradimensionata e sovraccarica di offerta per una popolazione in calo, e ha bisogno di accedere all'insaziabile consumatore americano per avere una crescita reale.
Avendo imposto dazi unilaterali, semplicemente perché non è paralizzato dal dogma del libero scambio, Trump può ora ridurli in cambio di concessioni cinesi, tra cui il ritorno alle importazioni di soia (gli agricoltori sono importanti sostenitori di Trump) e un tono più moderato nelle minacce bellicose di invadere Taiwan. D'altra parte, Trump sa che non può chiedere ai cinesi di smettere di sostenere la guerra russa in Ucraina
Per quanto riguarda il Giappone, il nuovo primo ministro promette di porre fine al declino della cooperazione politica tra Stati Uniti e Giappone iniziato dopo Abe: sotto Abe, una comunicazione minima tra i funzionari di Tokyo e Washington era sufficiente per garantire che le due amministrazioni agissero in modo coordinato e senza intoppi, ad esempio per sostenere i Paesi più deboli minacciati dalle pressioni cinesi, come in particolare le Filippine. Dopo la sua uscita di scena, tutto ha dovuto essere negoziato punto per punto, perché i successori di Abe esitavano ad agire con la sua stessa determinazione e anche le iniziative più significative sono finite nel nulla. Fortunatamente per Trump, la nuova premier giapponese Takaichi Sanae, motociclista, artista marziale ed esponente di destra anti-immigrazione, era una grande discepola di Abe, e il loro incontro è destinato ad essere un successo clamoroso: Trump spera certamente che Takaichi sia un'altra Abe.
Affinché ciò avvenga, tuttavia, lei stessa deve fare ciò che ha appena fatto il protetto argentino di Trump, Javier Milei: vincere le elezioni parlamentari per ottenere più seggi per il suo partito, dato che in questo momento la sua posizione dipende da fragili partner di coalizione.Finora, in ogni caso, la diplomazia altamente personalizzata di Trump gli è stata utile, ma sapremo quanto solo dopo l'incontro Trump-Xi.