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"Tutti sapevano dei cecchini del weekend". Così Sarajevo fa i conti con i fantasmi del passato

Vecchie ferite si riaprono nella capitale della Bosnia Erzegovina ma i suoi abitanti, nonostante le difficoltà, guardano al futuro con speranza

Baščaršija, il centro storico di Sarajevo
Baščaršija, il centro storico di Sarajevo

Sarajevo. Di sera, le luci sulle colline attorno a Sarajevo sono così vicine che dalla Baščaršija, il suo centro storico, sembra quasi di poterle toccare. È questa una delle prime impressioni che la capitale della Bosnia Erzegovina suggerisce ai suoi visitatori. Sui pendii le case si arrampicano le une sulle altre in un inestricabile groviglio e le montagne abbracciano la città facendo da sfondo all'alternarsi delle inconfondibili sagome delle moschee, delle chiese e delle sinagoghe mescolate a quelle di palazzoni decisamente più moderni. Una visione che suggerisce anche allo sguardo più distratto tutto il peso della storia e il fascino che da secoli caratterizzano la Gerusalemme d'Europa.

Una città sospesa tra passato e futuro

A Sarajevo i canti dei muezzin e i rintocchi delle campane, ad ogni ora del giorno e della notte, ricordano come la pace e la convivenza tra popoli di varie fedi ed etnie non sono slogan vuoti ma conquiste pagata ad un prezzo altissimo. Un messaggio che risuona ancor più forte se si pensa proprio al terribile assedio imposto dai serbi manovrati da Slobodan Milosevic, il "macellaio di Belgrado", che dal 1992 al 1996 ha cercato di soffocare la città. Senza mai piegarne davvero lo spirito.

Oggi Sarajevo si apre al mondo con placidità, trasposta plasticamente nella lentezza con la quale gli avventori dei locali della Baščaršija sorseggiano un caffè bosniaco dietro l'altro. E con orgoglio. Lo stesso mostrato in occasione delle Olimpiadi invernali del 1984, la cui mascotte, Vučko (il lupo delle Alpi Dinariche), fa spesso capolino sui muri della metropoli balcanica. Lontane sono le immagini dei civili bersagliati senza pietà dai cecchini lungo la famigerata Sniper Alley, lo stradone che corre parallelo al fiume Miljacka. Altrettanto lontani appaiono gli scatti delle fiamme che avvolgevano le torri di vetro, la sede del parlamento e l'ex biblioteca nazionale, la Vijećnica, da cui, durante il rogo, sul centro storico piovvero per giorni come cenere vulcanica frammenti di carta inestimabile.

A Sarajevo si ha comunque voglia di voltare pagina e, allo stesso tempo, di ricordare che persino durante l'assedio la luce dei suoi abitanti non ha mai smesso di brillare. “Non c’era solo Tanathos ma anche Eros”, spiega al Giornale l’artista locale Jasmin Memagic, inviato dai suoi genitori in Svizzera per sfuggire all’assedio durato 1425 giorni, il più lungo della storia bellica moderna. “Sono stato un ragazzo fortunato”, afferma Memagic. Suo padre rimase a difendere la città ma “oggi non farebbe più la guerra", puntualizza l'artista, il quale, tornato nella sua terra natale una decina di anni fa, conferma attraverso i racconti della sua famiglia come gli spari dei cecchini non abbiano mai spento la voglia di vivere dei sarajevesi né, tanto meno, annullato la loro sete di arte e di cultura.

Non è un caso che nel 1995, l’anno della strage al mercato cittadino (e del genocidio di Srebrenica), abbia preso il via il Sarajevo Film Festival. Un modo per dimostrare la capacità di resistenza non solo fisica ma anche morale della popolazione della città in cui da secoli l’Occidente si incontra e mescola con l’Oriente. Un paio di anni prima la sfida pacifica all’aggressore era stata lanciata dalle partecipanti al concorso di bellezza Miss Sarajevo. Struggente l’appello alla comunità internazionale della manifestazione - “non lasciate che ci uccidano” - che ispirò una celebre canzone degli U2, scritta e cantata da Bono e da Luciano Pavarotti a Modena nel 1995.

"Il conflitto continua in altri modi"

Certo, le tracce della guerra sono presenti ovunque nella città balcanica. Dalle chiazze di vernice rossa che marcano sull’asfalto i luoghi delle stragi – le “rose di Sarajevo” - alle cicatrici sugli edifici, passando per i memoriali ai caduti. Tutto parla ancora di un assedio che ha fatto oltre 11541 vittime, tra queste 1601 bambini, e che si è concluso il 29 febbraio del 1996. Con tanti punti oscuri ancora da chiarire.

A partire dal caso dei cosiddetti “cecchini del weekend”, tornato d’attualità in Italia con l’inchiesta della procura di Milano - partita dopo l'esposto presentato dal giornalista Ezio Gavazzeni - su diversi italiani facoltosi che nel fine settimana raggiungevano Sarajevo e pagavano per sparare ai civili inermi. “Tutti ne erano a conoscenza”, dichiara Memagic. Gli fa eco Adis, ex soldato dell’esercito bosniaco che ha combattuto a difesa della città per quattro anni. Entrambi citano il documentario del 2022 sui “turisti di guerra” del regista sloveno Miran Zupanič, “Sarajevo safari”.

È sempre Adis a raccontare al Giornale come il conflitto ha cambiato la sua vita, e tante altre, per sempre. "All'epoca nessuno immaginava che Sarajevo fosse ad un passo dal baratro", dice. “Accadde tutto da un giorno all’altro”, prosegue l'uomo che dopo la guerra ha girato il mondo bonificando campi minati per conto di una società americana e che attualmente lavora come guida turistica. La sua famiglia andava d’accordo con i suoi vicini serbi e uno di loro era il suo migliore amico, racconta ancora Adis. L’odio tra i serbo-bosniaci instillato da Milosevic fu però più forte di qualsiasi legame.

Anche oggi che c’è la pace Adis ci spiega che in realtà il conflitto non è finito ma prosegue invece “in modi differenti”. Il riferimento, esplicitato nel corso del suo ragionamento, è agli accordi di Dayton che nel novembre del 1995 hanno determinato la conclusione della guerra portando alla formazione di un complesso e bizantino meccanismo di condivisione del potere tra le principali componenti etniche del Paese balcanico. Esso, pur rappresentando la migliore strada per la convivenza pacifica, sembra non aver sciolto le tensioni tra le varie comunità. Nonostante le imperfezioni dell'accordo di Dayton e il tentativo di alcuni politici serbo-bosniaci di rivangare il risentimento e di negare le stragi (persino quella terribile consumata a Srebrenica), l'ex militare dichiara di non cedere all'odio. E poi aggiunge: "non è così che voglio vivere".

La vertigine di Sarajevo

Ascoltare le voci dei sarajevesi e visitare la città in cui si è aperto e concluso il Novecento è un'esperienza che lascia frastornati. Non potrebbe essere altrimenti. Appena una generazione separa la Sarajevo moderna dai massacri degli anni Novanta. Troppo poco per non avvertire gli orrori della storia recente ma abbastanza per percepire la voglia di andare avanti. Se una parte della città appare infatti congelata nel tempo un'altra lotta per mostrare il suo lato più vivace e alla moda con locali, grattacieli e centri commerciali che non sfigurerebbero al confronto con quelli di altre capitali più famose.

La rinascita difficile ma testarda della Gerusalemme d'Europa è un esempio di quello che potrebbe avvenire nei tanti, troppi territori, a cominciare da Ucraina e Gaza, oggi martoriati dalla guerra.

In questo senso la capitale della Bosnia Erzegovina è un laboratorio a cielo aperto che intende dimostrare al mondo che anche dopo la notte più buia, seppur dolorosamente, si può fare pace col passato e provare a scrivere un capitolo tutto nuovo. Se è possibile tornare a sognare a Sarajevo, un giorno forse sarà possibile farlo anche altrove.

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