Oggi il consueto convegno organizzato dall'Acri per la Giornata mondiale del Risparmio consentirà alle banche italiane, rappresentate dal presidente dell'Abi Antonio Patuelli e dal governatore di Bankitalia Fabio Panetta, di confrontarsi con il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti. L'intervento fiscale sugli istituti di credito delineato dalla legge di Bilancio 2026, applicato ai risultati del 2024 (il cui ulteriore miglioramento quest'anno non è del tutto sicuro), produce un impatto relativo sui ricavi complessivi del sistema bancario (oltre 110 miliardi), ma incide in misura più rilevante sugli utili netti. La stima elaborata sulla base dei dati Banca d'Italia indica un prelievo di 4,5 miliardi di euro, pari al 4,1% del margine di intermediazione e al 12,8% dell'utile netto cumulato di 35 miliardi di euro circa. Non si tratta, quindi, dei 45 miliardi cui spesso si fa riferimento che invece rappresentano gli utili ante imposte. La misura, dunque, non altera la capacità lorda di generazione di reddito, ma riduce sensibilmente la porzione di utile destinabile a dividendi e al rafforzamento patrimoniale.
Prima di addentrarci nell'analisi dei potenziali effetti, occorre ricordare alcuni dati significativi. In primo luogo, stando ai dati del Dipartimento delle Finanze del Mef, le banche pagano già un'Ires maggiorata al 27,5% (rispetto al 24% che vale per tutte le imprese) e un'Irap maggiorata del 5,45%, destinata ad aumentare ulteriormente per gli effetti della manovra. Se le percentuali non fossero eloquenti, bastino alcuni dati. Intesa Sanpaolo nel primo semestre 2025 ha già devoluto allo Stato 3,2 miliardi di euro sotto forma di tasse. Unicredit nel 2024 ha pagato 400 milioni di Irap (il che significa che l'Ires potrebbe aver abbondantemente superato il miliardo e mezzo). L'anno scorso le due imposte hanno gravato su Bper per 1,3 miliardi e per 620 milioni su Banco Bpm. Insomma, i primi quattro gruppi contribuiscono attivamente al bilancio pubblico.
Cosa significa, quindi, aumentare il prelievo? Il rischio principale è di tipo dinamico: comprimendo la ritenzione degli utili, la maggiore tassazione riduce la flessibilità del capitale e può spingere gli istituti a politiche più difensive. In passato, l'aumento del costo implicito del capitale ha portato le banche a ridurre le attività ponderate per il rischio o a irrigidire i criteri di erogazione del credito. Una tendenza che potrebbe accentuarsi, considerando che nel 2024 i finanziamenti alle piccole imprese risultavano già in calo del 6,8%. Considerato che i «cuscinetti» di capitale per difendersi dai rischi sistemici (come un improvviso deterioramento dei crediti) devono essere automaticamente costituiti, le ricadute si riverberano su altre attività tipiche.
Il prelievo, in sé, non è eccessivo rispetto a un rendimento medio sul capitale (Roe) del 12,8% nel 2024, ma è pro-ciclico: colpisce nel momento in cui la redditività si riduce per effetto dell'allentamento monetario. La Banca d'Italia prevede, per il biennio 2025-2026, una significativa contrazione del margine di interesse, dopo il picco registrato con la fase dei tassi elevati. In un contesto di utili in discesa, la pressione fiscale del 2026 potrebbe quindi erodere una quota maggiore dei profitti rispetto al 12,8% calcolato sul 2024.
La dinamica, tuttavia, ha avuto un rovescio: i prestiti a famiglie e imprese sono diminuiti di oltre 50 miliardi nello stesso periodo. Le banche hanno «fatto più soldi facendo meno credito», ha segnalato l'ultima edizione del nostro settimanale Moneta, mettendo in luce come la compressione dei tassi riconosciuti ai depositi liberi - circa 1.550 miliardi di euro remunerati allo zero virgola - abbia rappresentato una fonte di profitti. L'elevata patrimonializzazione (con coefficienti Cet1 medi intorno al 15%) e la qualità dell'attivo oggi consentono di assorbire lo shock fiscale senza tensioni immediate.
Ma la criticità resta: drenare risorse in una fase di rallentamento può compromettere non solo la capacità del sistema di sostenere l'economia reale, ma anche quella di remunerare gli azionisti, spesso piccoli risparmiatori che nelle banche vedono una solida alternativa ai titoli emessi dal Tesoro.