
Il vero pugno allo stomaco sono i corpi avvinghiati nel terriccio di una donna con un giovane, probabilmente suo figlio. I primi a venire tirati fuori dalle fosse comuni di Srebrenica nel 1996. I polsi sono legati con il filo di ferro, come alla fine della Seconda guerra mondiale con gli infoibati italiani scaraventati nelle cavità carsiche dai partigiani di Tito. L'11 luglio cade il tragico anniversario del massacro alle porte di casa nostra.

Trent'anni dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, il Giornale porta, per la prima volta, la sua Academy sul campo, a Sarajevo la città martire di un assedio che ha falciato 11mila anime. Un viaggio per giovani giornalisti o aspiranti tali, che vogliono imparare dal vivo come si realizza un reportage. E per visitatori di tutte le età attratti dal tuffo nella storia di un conflitto e dall'attraente originalità di una capitale miscuglio di tradizioni e culture. Per questo abbiamo scelto come albergo l'Holiday Inn, bivacco dei giornalisti durante la guerra senza acqua ed elettricità. Non ha più il buco, da una parte all'altra, della cannonata di un tank serbo, ma è sempre al capolinea del viale dei cecchini che dovevi percorrere a cento all'ora nella speranza di sopravvivere.

La trentina di partecipanti fra ragazzi dell'Academy e viaggiatori è un'allegra compagnia. Alessandro il giovane mago dei social, Ilaria con la figlia non ancora maggiorenne, che ha voluto farsi regalare l' «avventura» a Sarajevo, l'entusiasta farmacista romana, i giornalisti veterani, le arzille ottantenni e altri simpatici compagni di viaggio. La formula il giorno in giro e incontro nel tardo pomeriggio dell'Academy, per tutti i partecipanti, si rivela vincente. Video, foto, aneddoti, ricordi della guerra etnica e dell'assedio si mescolano al racconto dell'ospite di eccezione come Sarah Eti Castellani, l'ambasciatrice italiana in Bosnia Erzegovina, che il primo giorno spiega come il fuoco covi ancora sotto le ceneri.

La scelta di visitare i luoghi simbolo, per primo il museo del tunnel sotto l'aeroporto, che ho percorso veramente durante l'assedio è un momento toccante per tutti. Sull'Igman, la montagna della morte, da dove si correva all'impazzata verso Sarajevo per evitare i colpi dell'artiglieria serba è altrettanto emozionante incontrare, per caso, il veterano lacerato nelle carni dalla guerra che prega sulla lapide con i nomi dei due figli caduti in combattimento.
«Gigio», nomignolo di Idris Huric, l'autista dell'ambasciata, ci racconta come sfidava la sorte per accompagnare i giornalisti dall'aeroporto all'Holiday Inn lungo il viale dei cecchini.

Non basta visitare i cimiteri del lungo assedio. Per questo andiamo anche dall'altra parte della barricata, nella Republika Srpska, dove in un angolo di strada campeggia la targa dedicata al generale Ratko Mladic condannato all'ergastolo per genocidio, ma considerato ancora oggi un «eroe» da molti serbi. Sulle colline da dove inondavano la città con una valanga di fuoco adesso c'è un ristorante panoramico ed un parco giochi. A Pale, piccolo villaggio, roccaforte serba durante la guerra, Malko Koroman, ex capo della polizia locale, accusato di crimini di guerra e poi prosciolto, espone il suo punto di vista. La nostra guida musulmana, Amra, è impeccabile nella traduzione, che la colpisce come una staffilata quando il comandante ammette la strage, ma nega che a Srebrenica sia stato consumato un genocidio. Koroman, forse, su un punto non sbaglia: «La guerra ha distrutto la Sarajevo multietnica».