Ormai la ribellione è ridotta a un obbligo

Siamo passati dalla conquista della consapevolezza alla glorificazione dello scontro

Ormai la ribellione è ridotta a un obbligo
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Caro Feltri, le mie idee divergono dalle sue, ma questo lo vedo come un arricchimento, merce ormai rara nella dicotomica dormocrazia che stiamo vivendo. Vengo al dunque: sto ascoltando la puntata in podcast di Fahrenheit di ieri pomeriggio e la conduttrice ha presentato un brano, Rebel woman, esaltando questa donna che si ribella. Così mi sto chiedendo se esiste ancora una donna che non senta questa necessità di ribellarsi, di essere sé stessa senza dover bruciare i panni da stendere, dare le martellate alle pentole o strappare i vestiti nell'armadio.
Boh, questa rappresentazione di una donna sempre come quella che rompe le catene, che conquista i suoi spazi spazzando via nemici ogni giorno diversi, offre una narrazione del loro ruolo come quello di isteriche alla ricerca di muri da abbattere. Compresi quelli di casa.

Daniele Mosconi
Fondi

Caro Daniele
la tua riflessione è quanto mai lucida e opportuna. Hai colto perfettamente una tendenza grottesca e ormai imperante: quella di presentare la ribellione come forma obbligatoria di esistenza, come unico codice morale accettabile, soprattutto se incarnata da donne, studenti, minoranze, sedicenti pacifisti o artisti impegnati. Siamo passati dalla conquista della consapevolezza alla glorificazione dello scontro. Dalla fierezza dell'identità alla necessità di abbattere ogni simbolo, ogni regola, ogni limite, anche quelli sani. Oggi pare che per essere donna, debba necessariamente ribellarti. Se non spacchi un piatto, se non alzi la voce, se non dichiari guerra alle pentole, alla maternità, alla casa e magari pure all'italiano medio che ti sorride per strada, sei automaticamente repressa, succube, non emancipata.

Il risultato è che l'emancipazione non è più conquista, ma rissa. E la libertà non è più la scelta ponderata di un'esistenza consapevole, ma la manifestazione di una rabbia perenne e per lo più ideologica.

Lo stesso vale per la cosiddetta protesta per la pace. Una pace che si urla, si minaccia, si impone con la violenza: urla, spranghe, graffiti sulle statue, slogan da curva e manganelli verbali.

Mi domando: può davvero dirsi pacifista chi insulta, devasta, pesta agenti e augura tumori a chi la pensa diversamente?

No. Quella non è pace, è rabbia travestita da causa. È ribellione sterile, scollegata dalla realtà, figlia di una cultura che confonde il diritto con il delirio e l'attivismo con l'aggressione.

Una società che trasforma la ribellione in valore assoluto è una società immatura. Perché se tutto è da abbattere, allora niente vale la pena di essere custodito. Né la legge, né la tradizione, né il buonsenso, né, paradossalmente, la libertà stessa.

Abbiamo bisogno di donne libere, sì, ma

anche lucide. Di giovani appassionati, ma non fanatici. Di cittadini consapevoli, non incattiviti.

Abbiamo bisogno non di più ribellione, ma di più responsabilità. E quella, caro Daniele, non fa rumore. Ma costruisce civiltà.

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