Sapersi ricredere (anche sul Ponte)

Il Ponte di Messina non è solo un'opera ingegneristica; è una dichiarazione di intenti. È la promessa di un Paese che non accetta il declino, la sua riduzione a periferia dell'impero americano

Sapersi ricredere (anche sul Ponte)

Del discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini mi ha colpito il tono. Non era quello della resa, del si-salvi-chi-può. Quest'uomo ha più o meno la mia età, ha percorso tutt'altre strade rispetto alle mie, ma la sua amicizia mi è cara, e mi conforta. Ed ecco che invita a ricominciare, a non sedersi sulle idee maturate e valevoli trent'anni fa. Sarebbe come aprire il vecchio ombrello per ripararsi dal mondo che ci cade in testa. Mi sono segnato una frase: «adattarsi alle esigenze del tempo quando esse sono esistenziali». Parlava dell'Europa, dicendo che non conta niente, e allora deve cambiare se vuole esistere.

Tranquilli, cari lettori, non sono qui a commentare le sue proposte sul Continente. Mi limito all'Italia. Nel mio piccolo, ho cambiato idea sul Ponte di Messina. Se essa vuole essere adeguata al passo che sta tenendo sul piano internazionale Giorgia Meloni, l'Italia deve allungare lo Stivale, smetterla di temere che grandi appalti (una decina di miliardi) coincidano con grande corruzione, e ingrassino per forza la mafia. E che terre sismiche debbano tenerci alla larga dal costruire infrastrutture atte a scavalcare ostacoli fin qui ritenuti insormontabili.

Dopo che, nella mia «Stanza», ho manifestato il mio sì al progetto che, dopo essere stato di Berlusconi oggi è di Salvini, non pochi mi hanno rinfacciato incoerenza. Non è l'opinione su un ponte, nemmeno quello dentale, figuriamoci quello di Messina, a spostare l'asse delle mie convinzioni. Chi non è vedovo di qualche idea? Sono mutati i tempi. La comunicazione ha cambiato parametri, non solo si sono aperte con Internet vie nuove nell'etere per parole e immagini, ma strade marittime prima impensabili attraverso l'Artico per cui si battono America, Russia, Cina e pure timidamente l'Europa scandinava impongono a noi che ne siamo lontani di creare alternative valorizzando come una piattaforma logistica incomparabile la Sicilia. Non si capisce perché dovremmo lasciarla lì come se fosse quella dei fichi d'India: può essere la nostra California.

Come disse un filosofo che aveva abiurato al marxismo: «Chi non è vedovo di qualche idea?». Più modestamente, a me è morta la convinzione che opere gigantesche nel Sud Italia fossero un suicidio economico. Che quel ponte sullo Stretto poi, in bilico sopra mafia e terre ballerine, nei pressi di un manipolo di vulcani alquanto nervosi (Etna, Stromboli, Vulcano) fosse una provocazione temeraria. Due grandi economisti miei amici come Piero Cantoni e Antonio Martino provarono invano da vivi a farmi ribaltare il parere: li faccio contenti post mortem. Mi hanno infine convinto non solo gli argomenti, ma la passione morale dell'ingegner Pietro Lunardi. L'ho visto all'opera, quando nello scetticismo del mondo intero, con poche mosse geniali, ha salvato la Valtellina da un'alluvione catastrofica. Sulla sicurezza e convenienza del Ponte, Lunardi si gioca la reputazione di una vita, che per uno come lui equivale alla testa di Giovanni Battista. Di uno così fidarsi è ragionevole.

Conosco il pensiero dei romantici, identico nelle conseguenze a quello degli ecologisti: quel braccio di mare racconta storie antiche, Scilla e Cariddi, mitologie che, come scrisse Aristotele, sono «cose meravigliose». Preferisco Ulisse a Polifemo, che cercò altre vie, in questo angolo di Mediterraneo, si gioca una partita che va ben oltre la geografia: quella tra il progresso e quella che il Nobel dell'economia, Milton Friedman, amato dal citato Antonio Martino chiamò «la tirannia dello status quo».

Il Ponte di Messina non è solo un'opera ingegneristica; è una dichiarazione di intenti. È la promessa di un Paese che non accetta il declino, la sua riduzione a periferia dell'impero americano, ma vuole crescere, connettersi, prosperare.

Guardiamo agli esempi internazionali: il Golden Gate di San Francisco (che ha retto a terremoti terrificanti), il ponte di Øresund tra Danimarca e Svezia (costruito da aziende italiane), i viadotti cinesi che sfidano la gravità. E il tunnel sotto la Manica? Ogni grande opera ha affrontato critiche, dubbi, paure. Ma i simboli sarebbero lussi per popoli grassi se lo scavalcamento dello Stretto con un'opera di tecnologia non nascesse da una necessità esistenziale di questi tempi (vedi Draghi), cioè di sopravvivenza dignitosa e magari prospera.

Oggi le grandi navi mercantili ignorano i nostri porti per dirigersi a Rotterdam o Amburgo. Perché? Perché mancano infrastrutture efficienti. Il Ponte di Messina, insieme allo sviluppo dei porti siciliani, invertirebbe questa tendenza, attirando investimenti e creando posti di lavoro. Mi risulta che ci siano Paesi arabi che sarebbero pronti a prendersi carico di questo Ponte in cambio di un dominio sui porti.

Come la Cina al Pireo. No grazie, non siamo colonie. Non facciamoci portare via la Gioconda delle infrastrutture, che diventerebbe persino una grande meta turistica. Mi fermo qui. E comunque sia chiaro, non mi sposto da Milano.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica