"La politica non ama la scienza, piace solo chi fa il pagliaccio"

Il fondatore di BergamoScienza: "Vanno premiati i competenti, non le casacche. Lo Stato difenda i cittadini deboli in balia dei media"

"La politica non ama la scienza, piace solo chi fa il pagliaccio"

È di Bergamo, dove ha fondato il festival BergamoScienza, ha 56 anni, una moglie e due figli, di 18 e 30 anni. Il papà è pugliese e la mamma bergamasca. Gianvito Martino è un asso della neurologia, autore di ricerche che hanno contribuito allo sviluppo di terapie innovative per malattie neurologiche gravemente invalidanti. È direttore scientifico dell'Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. Ha firmato una serie di libri, l'ultimo, «Usare il cervello», è sottotitolato «Ciò che la scienza può insegnare alla politica».

Sostiene che la politica debba ricominciare dalla scienza se intende occuparsi della qualità della vita. In che senso?

«La scienza non pretende di raggiungere la verità, ma mette a disposizione strumenti per interpretarla. Questo dovrebbe essere chiaro ai politici che dovrebbero coinvolgere gli scienziati anziché schierarsi contro. Perché non iniziare ad ascoltare cosa ha da dire il mondo scientifico? Perché non ragionare in termini di competenza e non di casacca? La ragione di tutto ciò sta nel fatto che manca una vera e propria terza cultura che faccia da cerniera tra i centri del sapere e il cittadino, e da questa mancanza nasce la diffidenza nell'intendere la scienza come decisivo strumento politico».

Cosa hanno da dire le neuroscienze in proposito?

«Prendiamo per esempio il campo delle decisioni. Le neuroscienze hanno dimostrato che nel prendere decisioni, l'uomo è in balia di dinamiche spesso inconsapevoli, addirittura controproducenti. Un comportamento irrazionale guidato dalla soddisfazione immediata caratterizza vari aspetti del nostro quotidiano. E in molti casi, le soluzioni non dovrebbero solo contemplare gli aspetti sociali, ma anche le evidenze scientifiche, perché tali comportamenti possono diventare patologici, come nel caso, per esempio, della ludopatia».

Vuol dire che sono inefficaci campagne con slogan come «Gioca con il cervello e non con il cuore»?

«Di fronte al rischio, il nostro cervello si comporta più come il cuore, e cioè in modo irrazionale».

O forse ciò accade perché lo Stato non è disposto a rinunciare al gettito derivante dal gioco d'azzardo?

«Dubbio legittimo, basti pensare a quello che succede con alcol e tabacco. Una intricata connivenza e convenienza d'interessi a tutto tondo».

Un contesto dove è il debole a farne le spese.

«Sicuramente. Il pensiero va anzitutto ai ragazzi. Se non proteggi la fascia dell'adolescenza, dove arriveremo? Mi dicono che voglio lo Stato etico. Stupidaggini. Dico solo che l'essere umano ha dei limiti, ha le sue fragilità, è umano cadere in tentazione. Lo Stato dovrebbe, in questi casi, assumere un atteggiamento - che alcuni economisti comportamentali definiscono paternalista libertario capace di indicare con chiarezza linee guida e regole in grado di tutelare anzitutto i più deboli, quelli meno attrezzati, dalle sirene strombazzanti dei media e dal consumismo. Un esempio, l'alimentazione».

In che senso?

«In Italia, come in tutti i Paesi occidentali, si registra un forte aumento dell'obesità. Ci sono guru che pontificano, lanciando allerte. Poi vai al supermercato e anche in quelli che si fregiano di essere rispettosi dell'ambiente ed essere equo-solidali, scopri un atteggiamento da fabbrica del cibo: proprio come gli altri. Gli scaffali sono allestiti in modo da far spendere di più. Se la salute del consumatore fosse una priorità, conoscendo quali sono i suoi criteri di scelta, nei punti chiave verrebbero collocati i prodotti dietetici e non quelli ad alto contenuto energetico nonché più costosi».

Del resto, la priorità è fare profitto.

«Va bene pensare ai ricavi, fare profitto fa parte del gioco. Non è questo il problema. Si può fare profitto però anche rispettando regole che tutelino le nostre fragilità. Tra l'altro con una corretta alimentazione, fonte primaria di severi disturbi soprattutto di tipo cardiovascolare, si ridurrebbe la spesa sanitaria e lo Stato, alla lunga, ne guadagnerebbe».

In tema di prevenzione, quanto conta conoscere il funzionamento del cervello?

«Molto. Le neuroscienze offrono strumenti in più per fare in modo che la gente viva meglio. Per esempio, è stato dimostrato che vivere in una famiglia allegra favorisce il buon umore, riduce la tendenza ad ansia e depressione e il rischio di ipertensione e malattie cardiovascolari. La medicina dovrebbe essere anzitutto preventiva, e solo in seconda battuta curativa».

Una politica senza informazioni scientifiche dove approda?

«Rischia di fare scelte poco oculate. Del resto, si sa, le ideologie di massa sono basate su convincimenti a priori. La storia insegna che spesso la politica ha voluto espressamente tenere la gente comune nell'ignoranza per meglio controllarla e guidarla, lì sì che entra in gioco la Stato etico inteso nel senso più deleterio del termine».

E per non subire

«Bisogna conoscere, conoscere, conoscere. Approfondire i temi con cui ci confrontiamo quotidianamente, acquisire competenza. Parafrasando Bauman, essere solidi e non liquidi, approfondire e non limitarsi alla superficie delle cose. Ragionamento che vale soprattutto per la tecnologia che ormai permea tutta la nostra vita. Tutti sono spaventati dagli sviluppi tecnologici ma non fanno niente per evitarli. Basterebbe conoscere la tecnologia per dominarla, non conoscendola invece si risulta spesso soggiogati da essa».

In quale parte del mondo gli scienziati vengono ascoltati dai politici?

«Nel mondo anglosassone il parere di una persona competente è preso seriamente in considerazione. Da noi non sei ascoltato, se ragioni con serietà e competenza, se approfondisci troppo, se parli a bassa voce, e se non urli e se non fai il pagliaccio non conti. È paradossale che ciò si verifichi nel Paese con la più grande tradizione culturale al mondo».

Dove però la cultura scientifica ha vissuto all'ombra di quella umanistica.

«Ora dobbiamo superare gli steccati disciplinari accordando alle scienze umanistiche il primato di porre paradigmi teorici e alle scienze pratiche il compito di sostanziarli con i fatti, il progresso scientifico-tecnologico è un'opportunità e non una iattura. La cultura umanistica è fondamentale ma non più sufficiente. Basta vedere cosa sta succedendo nella letteratura».

Cosa?

«Un tempo la letteratura aveva un valore morale, di denuncia, serviva a far riflettere. Ora è una letteratura di maniera. Si scrive per vendere, il marketing ha preso il sopravvento. E le storie che vengono raccontate ora tendono ad assomigliarsi tutte».

Quindi lei cosa legge?

«Solitamente saggi».

Nessun romanzo?

«Se facciamo riferimento agli scrittori contemporanei, ne leggo pochi, e quei pochi in genere provengono da aree difficili, aree dove fioriscono testi di sostanza. Mi riferisco agli scrittori israeliani, OZ, Yeoshua, Grossman ed ai sudafricani, Gordimer, Coetzee. Mi piacciono però anche McEwan e Roth».

Perché vale la massima per cui le difficoltà acuiscono l'ingegno?

«Le difficoltà acuiscono l'ingegno, questo è certo. Il nostro sistema cognitivo si allena soprattutto quando dobbiamo decidere quale scelta compiere tra varie opzioni che ci vengono proposte. Oggi come oggi avendo tanti strumenti tecnologici a disposizione che decidono al posto nostro corriamo il rischio, da alcuni già paventato, di ridurre progressivamente la nostra capacità di apprendimento».

E invece che ripercussioni ha sul cervello il ritmo veloce dei nostri tempi?

«Se sottoposto a ritmi velocissimi, se opera in condizioni di rischio, il cervello non riesce ad essere razionale quindi risponde in maniera automatica. Il fine è certamente protettivo ma allo stesso tempo favorisce la superficialità».

Come sta cambiando il nostro cervello nel mondo degli smartphone, internet, intelligenza artificiale, social media.

«I ragazzi stanno perdendo la capacità di socializzare proprio perché utilizzano i cosiddetti social media. Ma il cervello si è evoluto massivamente proprio quando l'uomo ha iniziato a socializzare, diventando da errante a stanziale, tribale. Essendo la socializzazione il motore della nostra evoluzione ed essendoci ora una socializzazione che evita il contatto, il futuro delle nuove generazioni non lo vedo semplice».

Lei non usa i social?

«No, anche perché non ho tempo».

Ai suoi figli che dice?

«Uno ha ventotto anni, quindi ha la sua età. La figlia diciotto. E comunque dico loro quello che ci siamo detti ora. Io sono sempre stato un padre libero, credo che per capire sia necessario sbagliare. Li ho lasciati liberi di sbagliare. Sono due bravi ragazzi, ma magari lo sarebbero stati comunque. Ho sempre indicato loro quali fossero i pericoli. Il punto sta nel non essere né autoritari né menefreghisti. I figli devono sapere che ci sei».

Quanto sono fragili gli adolescenti del Duemila?

«Tanto. Hanno paura della diversità, quand'ero ragazzo io la grande soddisfazione era emergere rispetto al gruppo, far valere le proprie peculiarità. Ora l'obiettivo è essere accettati, anche a costo di uniformarsi. Del resto, agiamo in un sistema pensato per condizionarci. Ma più conosciamo e più siamo in grado di distinguere come e dove informarci. Senza istruzione rischiamo di abboccare agnosticamente a qualsiasi cosa ci viene data in pasto».

Ancora circola la leggenda metropolitana per cui l'uomo sarebbe capace di utilizzare soltanto il 10% del suo cervello.

«Non è vero!».

La scienza cosa ha dimostrato a tal proposito?

«Il cervello consuma il 35% circa della quota di energia a lui dedicata - che è il 20% dell'energia totale che utilizziamo - per manutenere i neuroni, il 50% per preservare e far funzionare adeguatemene le sinapsi e il restante 15% per trasmettere gli impulsi elettrici, ovvero per far funzionare i circuiti cerebrali deputati all'espletamento delle azioni quotidiane. Ma questo non vuol dire che usa solo il 10% del totale».

Torniamo al discorso istruzione in Italia: ultima in Europa per numero di laureati.

«Un basso grado di istruzione è pericoloso e controproducente. È inconcepibile a mio modo di vedere la posizione di uno Stato che non investe primariamente sulla formazione di persone che stanno creando le proprie coscienze, alludo agli adolescenti, e che al tempo stesso sono nel periodo più fragile della loro costruzione come persone. E poi come è possibile che la classe degli insegnanti, deputata alla formazione della generazione del futuro, sia così bistrattata. Come possiamo motivare un professionista quando lo stipendio corrisponde a pochi euro mensili. Il sistema così non può reggere, infatti è già saltato».

E le famiglie che colpe hanno in tutto questo?

«La famiglia deve essere il luogo del dialogo, il contesto dove si spiegano e si approfondiscono le questioni. Ma se i genitori non sanno, cosa possono dire? Se hanno figli vivaci, pieni di interrogativi e non sapendo cosa dire li piazzano davanti alla tv, o agli smartphone, cosa possiamo aspettarci? Del resto, la famiglia è stata rovinata dalla nostra generazione di genitori, siamo passati dai figli dei fiori agli yuppies. Un genitore prima di dare consigli e regole è un modello per i propri figli, qualcuno da imitare».

E questa Italia come la vede?

«Vorrei vedere persone competenti nei posti chiave. Vorrei che la scuola fosse la fucina di tale competenza senza venire sempre e continuamente bistrattata. Ci vuole un sacco di lavoro certo capillare, non basta uno schiocco di dita o un decreto qualsiasi, ci vuole la consapevolezza dell'importanza del tema prima di tutto e poi competenza specifica».

Nel libro afferma che il 25 per cento della popolazione sia nei Paesi ricchi sia in quelli poveri soffre di una malattia del cervello, neurologica o psichiatrica. Una percentuale altissima.

«Ansia e depressione la fanno da padrone. E lo stress sociale è certo una delle concause che stanno alla base dei disagi mentali».

Le neuroscienze come possono intervenire?

«Le neuroscienze non si

prefiggono di svelare i misteri della vita, ma possono contribuire a capire quali sono le regole di convivenza sociale che servono a proteggere i più deboli dato che i più forti, come è noto, si sanno proteggere da soli».

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