Quando mandò in onda i primi segnali, era il 3 gennaio 1954. Quel giorno la televisione aprì agli italiani un universo sconosciuto. Per l'Italia che stava risorgendo dai disastri della guerra, per l'Italia che ce la faceva, era il segno della rinascita. E così, attraverso quella scatola strana ci si poteva trovare in un batter d'occhio e senza neanche tanta immaginazione e fantasia, davanti a immagini di luoghi lontani. Le grandi capitali d'Europa e del mondo, l'irraggiungibile e agognata America, le frontiere del progresso. Lo stesso che l'Italia intera sognava davanti a quelle immagini uscite quasi miracolosamente da quella scatola che, piano piano, occupava un posto di sempre maggior prestigio nei salotti delle case anni Cinquanta.
Oggi quello stupore che allora accoglieva le immagini dal mondo, in un certo senso è rimasto. Come se gli anni non fossero nemmeno passati. Certo quella scatola si è perfezionata, ora è ultrapiatta, in alta definizione, a colori e offre decine di canali per tutti i gusti. Ma lo stupore è rimasto. Oggi lo spettatore del XXI secolo che maneggia con disinvoltura Black berry e cellulari, palmari e bluetooth sa ancora restare di stucco davanti a una nicchia di programmi tutt'altro che piccola e assolutamente trasversale.
È la politica pop che svela il vero volto, al di là delle occasioni ufficiali, di politici e politicanti. Storia di infotainment, come lo chiamano adesso o di politainment, a ben guardare. I confini sono labili ma è la televisione del XXI secolo, bellezza. Addio ai mezzibusti e a Zatterin, addio alle tribune elettorali in bianco e nero con Rumor e Moro, La Malfa e Saragat, Almirante e Berlinguer, Nenni e De Martino. E l'immancabile Pannella. Grigi loro, grigie le loro immagini. Grigi quegli anni in cui il leader era sul piedestallo, lontano anzi lontanissimo, eppure con i suoi vizi, la sua umanità, le sue debolezze che però nessuno conosceva, se non filtrate attraverso racconti che quasi sembravano confessioni illecite.
Oggi è politica pop, il transgender che vince l'Isola dei famosi, il deputato che si fa beccare in castagna sul Darfur («un modo frettoloso di mangiare» lo definì). E poi «Ballarò» e «Porta a porta», «Le invasioni barbariche» e «Le Iene», «Striscia la notizia» e «Che tempo che fa», «Annozero» e «In mezz'ora». E via elencando. Si chiama politica in tivù, si pronuncia infotainment nel nuovo millennio. È il modo di portare il leader più vicino alla gente, è il modo di trasformare la politica in uno spettacolo in cui l'onorevole scherza, butta là una battuta, polemizza a colpi di fioretto col rivale in Parlamento, insomma, si fa conoscere come è nella realtà, come non lo si immaginava nei profondi anni Cinquanta e Sessanta. E pure Settanta.
È la politica pop, bellezza. Quella che avvicina l'eletto all'elettore, quella che accorcia distanze impensabili. È lo spettacolo della politica, pop perché... popolare. È l'infotainment, ma anche il politainment, quell'altro malvezzo neomillenario, rigorosamente mediatico, grazie al quale il politico finisce tirato in ballo per fatti e fatterelli estranei al suo settore di interesse. Trattasi di gossip, insomma, per usare il linguaggio del XXI secolo che parla inglese anche quando potrebbe usare l'italiano. Ma tant'è e il politico fa amicizia con il «suo» popolo anche così, con una barzelletta, salendo sul predellino, facendosi fotografare in bermuda sulla spiaggia o mentre fa una capriola in barca.
Non è vacuità, non è pettegolezzo. È un metodo mediatico, è comunicazione politica, codificata in maniera diversa rispetto al passato e, per lo più, materializzata in tivù.
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