La politica del senso comune

La politica del senso comune

Se dai anche solo un’occhiatina alla nostra politica nazionale, un po’ ti spaventi: come ha fatto ad aggrovigliarsi così tanto? Alla fine l’unica ventata di novità seria ti pare che venga dalla Chiesa, dalla sua richiesta, sempre più pressante, di confrontarsi con i fondamenti morali che regolano il nostro modo di vivere. Una «richiesta» che fa sempre più chiasso. Ma la reazione dei nostri politici è torpida: abituati a trattare «i preti» in modo molto pragmatico (un po’ di soldi alla scuola privata, una qualche trovata fiscale per il sostentamento, un direttore del Tg1 amico) in molti non sembrano neanche capire di che cosa si sta parlando. E si perdono nei particolari: i limiti a intervenire per vescovi pagati con l'8 per mille, la liceità di fischiarli e così via. Questa sordità culturale vale innanzi tutto per Romano Prodi che da buon dossettiano si considera migliore di tutti ma poi non riesce a nascondere la sua dimensione di fondo: quella di uno studioso della produzione di piastrelle. Alle questioni morali l'ex presidente della Commissione europea dà solo risposte bofonchianti prive di qualsiasi spessore. Nettamente meglio alcuni diessini che almeno in qualche misura intendono di che cosa si tratta.
Se il capo dei vescovi italiani Camillo Ruini chiede di sapere che ruolo ha nella società italiana la famiglia o la difesa della vita, non fa una scelta integralista o clericale, bensì s'interroga su come una comunità possa funzionare senza avere saldi e operanti agganci a una morale naturale e condivisa: «agganci» che facciano salva, naturalmente, la piena libertà di esprimere tutte le difformi opinioni che si vogliono, ma restino ugualmente fondanti. Quelli di Ruini sono interrogativi che erano ben presenti ai nostri padri costituenti e trovano richiami in una Carta, pure segnata da compromessi tra culture liberali e culture rivoluzionarie. Poi, però, nella prassi politica l'idea di misurarsi con i principi invece che con le tattiche è stata a lungo riposta in soffitta. Il richiamo di Ruini rappresenta quindi l'occasione per un brusco risveglio e produce, non tramite intrighi o intrusioni ma grazie alla dialettica delle idee, effetti che saranno di lunga durata.
Nel centrodestra il tema di una politica meno spettacolo, meno beau geste, e più fondata su principi morali e razionali, è assai diffusa. In sé questa tendenza pone le basi per il superamento dell'esperienza berlusconiana, che fu scelta d'emergenza e movimentista, risposta allo stupro della politica compiuto da larghi settori della magistratura e al cinismo degli ex comunisti che ne approfittarono, ma quell'intuizione, pur dando una risposta immediata a problemi posti dalla situazione, non riuscì a costruire e definire quella «istituzione» politica liberal-conservatrice di cui l'Italia ha bisogno. E che sola può interloquire con le grandi questioni poste da Ruini.
Va riconosciuto, peraltro, a Silvio Berlusconi che ponendo la prospettiva del partito unitario del centrodestra (e prima ancora chiedendo liste comuni alle Europee e alle Regionali con Udc e An) ha cercato di affrontare l'insieme della questione. Utile in questo senso anche la riflessione di Gianfranco Fini, al di là di scelte un po' improvvisate o esagerate (da quella sul referendum all'eccesso di polemica antifazista, neanche temperata dall'attenzione per le operazioni giustizialiste connesse al caso).
Al di sotto delle aspettative è, invece, il comportamento di gran parte del gruppo dirigente dell'Udc, formalmente molto ossequioso nel riferirsi alle questioni poste dalla Chiesa, ma centrato nell'agire politico essenzialmente sui suoi interessi di ceto politico di una certa qualità con, però, scarse radici sociali: in questo senso l'autorefe-renzialità (condita dal lobbismo) costituisce il nucleo identitario del partito centrista. Certo, da Pierferdinando Casini è venuta, in più di un caso, la proposizione di scelte meno miopi ed egoiste, ma questo approccio, poi, è stato per lo più seguito da un lavoro strategico di scarsa lena.
Se così vanno le cose nel centrodestra, problemi altrettanto complessi si trovano nel centrosinistra. Il politico più vivace del momento, Francesco Rutelli, ha saputo, di fronte innanzi tutto alle mancanze di Prodi, essere un interlocutore intelligente e puntuale delle sfide ruiniane. C'è da chiedersi se la sua scelta, però, di sabotare il decollo di una formazione riformista (dalla Margherita ai Ds) alla lunga non contrasti con la prospettiva di una politica più fondata sui principi. E c'è da domandarsi se su di lui (come su altri protagonisti della politica italiana) non pesino un po' troppo gli allettamenti del piccolo establishment montezemoliano che considera una certa instabilità del sistema italiano come condizione per contare di più.
Comunque le mosse rutelliane pongono problemi ai Ds dove c'è un Piero Fassino, dalle grandi doti organizzative ma non in grado, quanto alla sua capacità di trasmettere una forte visione prospettica e moralmente fondata, di andare molto oltre a piccoli, sdrucciolevoli escamotage autobiografici: «Sono sempre stato contro l'Unione Sovietica», «sono sempre stato credente».
In questo quadro, di fronte alla mancanza di una salda formazione riformista ispirata anche da valori religiosi, potrebbe affermarsi nel centrosinistra la tentazione di una deriva zapateriana, di un cedimento allo spirito del tempo, di una politica ciudadana che si conceda al senso comune invece di interloquire con questo sulla base di principi: una svolta magari compiuta in una chiave filo-Washington invece che antiamericana come in Spagna.

Marco Pannella è stato un eroico protagonista di tante battaglie per la libertà in Italia, ma, nonostante le sue medaglie, di una deriva zapateriana potrebbe essere un ottimo partner. E un Massimo D'Alema, infastidito dalla guerra che gli fa il piccolo establishment montezemoliano, dalle inadeguatezze di Prodi, dallo sgobbonismo senza visione di Fassino, a questa prospettiva si potrebbe arrendere.

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