Adesso Erdogan ci minaccia: «Lasciate in pace mio figlio»

«Lui indagato? Pensate alla Mafia...». E alla Mogherini: «Perché non è venuta dopo il golpe?». Tra Italia e Turchia cala il gelo

I ripetuti appelli alla moderazione nel reprimere il tentato colpo di Stato del 15 luglio rivolti al presidente turco Erdogan da quasi tutti i leader occidentali sembrano avere ottenuto l'effetto opposto. In una clamorosa intervista con Rai News, il Sultano ne ha avuto per tutti. Ha sfidato Renzi sostenendo che la indagine italiane per riciclaggio contro suo figlio Bilal potrebbe «mettere a rischio i rapporti con l'Italia» e invitato i nostri magistrati a occuparsi piuttosto di mafia. Ha rinfacciato all'Alto rappresentante Ue per la politica estera Federica Mogherini una solidarietà così tiepida e una così severa condanna delle purghe, da indurlo a pensare che tenesse segretamente per i golpisti. Ha rinfacciato all'Occidente di non avere inviato neppure un rappresentante per sostenerlo dopo un golpe contro la democrazia costato la vita a 238 persone: «Che cosa sarebbe successo - ha chiesto retoricamente - se avessero bombardato il Parlamento italiano?». Ha ribadito le accuse alla presunta mente del putsch, Fetullah Gülen, di essere a capo di una organizzazione criminale peggiore della mafia «e come la vostra P2» e aggiunto che non può considerare gli Stati Uniti un Paese amico finché non si decideranno a consegnarglielo. Ha confermato anche la minaccia di denunciare l'accordo sul contenimento dei profughi concluso tre mesi fa se entro ottobre i cittadini turchi non avranno ottenuto libero accesso senza bisogno di visto all'Unione. E ha aperto la strada al ritorno della pena di morte: «In Turchia c'è una forte richiesta dalla parte del popolo sulla pena di morte e se il Parlamento voterà nessuno potrà dire nulla. La pena di morte esiste negli Stati Uniti, Cina, Bahrein, Indonesia, Bielorussia, Emirati Arabi Uniti, Kuwait... Solo i Paesi dell'Unione europea l'hanno abolita».

Il nostro premier, spalleggiato dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha risposto subito per le rime: in Italia, ha detto, i giudici non rispondono al governo, ma alla costituzione: «Chiamiamo questo stato di diritto e ne siamo orgogliosi. Si tratta una delle prese di posizioni più dure di un leader Ue, a dimostrazione che l'Italia è ormai schierata con chi si oppone a un rapporto troppo stretto con la Turchia, che tra l'altro ha portato al dirottamento di quasi tutto il flusso di profughi verso le nostre coste».

Dal canto suo, la Mogherini ha ribattuto di avere condannato il golpe ed espresso tutto il suo appoggio alle istituzioni democratiche, ma, aggiungendo «in particolare al Parlamento», ha anche fatto capire che l'Europa non condivide le spietate purghe che Erdogan continua a fare in tutti i settori della vita pubblica, uccidendo in pratica quella democrazia che afferma di difendere. Fino ad adesso ha arrestato o esonerato metà dei generali ed ammiragli, 1500 ufficiali e oltre cinquemila soldati (anche se, secondo cifre ufficiose, solo 8.600 dei più di 500.000 membri delle Forze armate avrebbero partecipato al tentativo di rovesciarlo); ha imprigionato, o licenziato, decine e decine di migliaia di agenti di polizia, funzionari dello Stato, giornalisti, insegnanti e perfino arbitri di calcio con l'accusa di fare parte dello «stato parallelo» fedele a Gulen, anche se non hanno avuto una parte attiva nel golpe; ha chiuso da un giorno all'altro, sempre con la stessa motivazione, 45 giornali, 16 stazioni televisive, 15 settimanali, 3 agenzie di stampa e 29 case editrici; e, a dar retta ad Amnesty International, starebbe facendo ampio uso della tortura per estrarre confessioni e punire i principali responsabili. Lo Stato di emergenza sospende di fatto per tre mesi la convenzione sui diritti umani e permettere all'esecutivo di detenere chiunque per 30 giorni senza imputazioni. La ossessione paranoica di Erdogan per Gulen è tale, che sta facendo pressione su molti Paesi dove è presente la sua «rete» perché la chiudano, ma finora solo la Somalia gli ha dato retta.

I rapporti con gli alleati della Nato sono così giunti al livello più basso di sempre. Alla signora Merkel, che fino al golpe era la sua maggiore sostenitrice in Europa, non perdona di avergli vietato di arringare, via radio, un grande raduno di turchi a sostegno del suo regime organizzato a Colonia.

Solo con il generale americano Dunford, spedito d'urgenza ad Ankara per ottenere assicurazioni che nulla cambierà nell'impegno Nato e nella guerra al terrorismo sono stati più concilianti; ma il fatto che non abbia potuto incontrare Erdogan fa pensare a una specie di doppio gioco da parte dei turchi, che da un lato soffiano sul fuoco e dall'altro cercano di non rompere definitivamente rapporti vitali anche per loro.

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