Dissipata la nebbia dei turiboli, la post presidenza di Barack Obama dice molto della sua presidenza. Offre spunti per capire anche perché il partito democratico ha perso e Donald Trump ha vinto. Prendete la visita del Premio Nobel a Milano per parlare una quarantina di minuti - della fame nel mondo e dell'obesità dietro un cachet che i rumors danno tra i 350 e i 400 mila dollari, cifra quest'ultima che corrisponde alla parcella presentata da Obama nelle scorse settimane per un suo speach alla Cantor Fitzgerald LP, società di Wall Street tra quelle accusate d'aver venduto bond farlocchi nel 2008 e costretto l'allora presidente ad usare denaro pubblico per un bailout che molti liberal definirono orgogliosamente «socialista».
Gli stessi liberal però ora con le ferite ancora sanguinanti per una sconfitta elettorale dovuta alla deriva elitarista del partito democratico accusano il primo presidente nero di pensare solo a capitalizzare, a far cassa sfruttando in modo cinico il ruolo ricoperto e la favola della famiglia nera alla casa Bianca, anziché dedicarsi, per dire, alla condizione degli afroamericani divenuta sotto la sua amministrazione mai così tragica dagli anni Sessanta. Insomma lo accusano d'aver contratto la «clintonite», quel formidabile senso dei Clinton per il dollaro che ha permesso alla coppia (letti separati ma stessa banca) d'accumularne quasi duecento milioni in soli discorsi.
Anzi Obama dà subito l'impressione di volerli stracciare in partenza: per il suo memoir ha firmato un accordo di 65 milioni di dollari e lo scriverà nella nuova villa presa in affitto in Belmont Road, la via più esclusiva di Washington, a 22 mila dollari al mese. E sullo stile di vita alla Donald Trump anni Ottanta («da Club dei Miliardari», l'ha definito genericamente l'ex direttora del New York Times Jill Abramson) che gli Obama intenderanno condurre hanno offerto subito ampi e sprezzanti resoconti con raffiche di selfie dalle Isole Vergini britanniche o dalla Polinesia francese, rigorosamente a scrocco di miliardari yacht-dotati come Richards Branson o David Geffen.
Questo mentre il popolo degli antagonisti anti-Trump dimostrava sfidando le bufere di neve e invocava il suo ritorno nella mischia. Invece Obama non ha detto una sola parola nemmeno sullo smantellamento dell'unica azione politica degna del suo nome, l'Obamacare. «Pensavamo che libero dal ruolo presidenziale avrebbe finalmente usato il suo potere per battersi per le cause nobili, quelle che ci ha raccontato con tanta eloquenza nei suoi vecchi discorsi e nei suoi libri. Invece Obama, con questa bramosia di denaro, rivela la vera natura della sua presidenza e della crisi del partito democratico». E proprio mentre Obama ci serve una salatissima lezione contro calorie e fast food, in America David Garrow ha appena cucinato un piatto avvelenato: «Rising Star, the making of Barack Obama», un libro dove racconta la spregiudicata scalata al potere del ragazzo di South Side Chicago. Una ricostruzione devastante con testimoni come Sheila Jager, la ragazza bianca che Barack amava, che aveva promesso di sposare e che invece abbandonò «quando decise improvvisamente di usare il trampolino della causa afroamericana. Mi disse che gli serviva una moglie nera». Invece paradossalmente Michelle lo ostacolò a lungo: «Non voleva che perdesse tempo con la politica, lo ossessionava con i soldi», racconta un amico della coppia.
Domani Obama non mancherà di parlare del celebre orto di Michelle. Però il suo popolo non chiede carotine, ma parole forti di riscossa. Come Jill Abramson sul Guardian: «Speak, Obama, speak. Just not for money». Parla, Obama, parla, ma non per soldi.
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