E se dietro i cosiddetti «angeli dell'eutanasia» ci fosse qualcosa di diabolico? Un «qualcosa» che puzza di business. Affari incoffessabili. Perché costruiti sul dolore e la disperazione di malati particolari: talmente sofferenti da scegliere la strada del suicidio assistito. Se fosse vero, ci sarebbe da rabbrividire.
La denuncia choc arriva da fonti credibili e di cui il Giornale ha verificato l'attendibilità. Francesca D'Amico è la figlia del giudice Pietro D'Amico, 62 anni, che nel 2013 si sottopose a suicidio passivo nel centro Lifecircle a Basilea fondato e diretto dalla dottoressa Erika Preisig. Oggi Francesca D'Amico conferma quanto dichiarato lo stesso anno della morte del padre a Sandra Amurri del Fatto Quotidiano: «Papa non era affetto da alcuna malattia inguaribile, non era malato terminale. È stato istigato al suicidio». Il motivo? Le molte migliaia di euro che il giudice D'Amico era disposto a versare per chiudere la propria esistenza. Sospetti avvalorati anche dall'esito dell'autopsia da cui emerse chiaramente come il dottor D'Amico non era malato terminale. Il suo vero e unico problema era la depressione. Ma i medici svizzeri, prima di dare semaforo verde all'eutanasia passiva, non fecero alcuna visita, fidandosi solo della documentazione cartacea presentata dal giudice, determinatissimo al suicidio, a tal punto forse di ritoccare la sua stessa cartella clinica.
Altrettanto circostanziata è la denuncia affidata appena pochi giorni fa a Jenner Meletti di Repubblica da parte di Paolo ed Enrico Filonzi, cugini di Daniela Cesarini, 66enne di Jesi che, anche lei nel 2013, e anche lei presso la Lifecircle di Basilea, chiese (e ottenne) dalla dottoressa Preisig il via libero al suicidio assistito. Oggi i nipoti puntano il dito contro la Lifecircle: «Daniela voleva farla finita e purtroppo ha trovato sulla sua strada persone che si atteggiano a Santa Teresa di Calcutta e che sono invece attente al denaro. Il nostro medico in Italia ci ha dichiarato che Daniela non era in cura per nessuna grave patologia».
Illazioni che la Preisig rigetta sdegnata: «Credo profondamente in Dio, la mia missione e aiutare il prossimo. Prego sempre insieme con chi decide di chiudere la porta della vita. Una porta che io cerco di convincere a tenere aperta. Alla fine assecondo la volontà di chi quella porta la sbarra per smettere di soffrire. Lo faccio rispettando la dignità umana, le leggi del mio Paese e quelle della mia coscienza».
Sia il giudice D'Amico, sia Daniela Cesarini furono indirizzate alla Lifecircle da Emilio Coveri, presidente di Exit Italia. «Nel caso del giudice D'Amico - afferma Coveri al Giornale -, la dottoressa Preisig fu tratta in inganno da una documentazione medica falsa che lo stesso giudice aveva presentato per essere sicuro che la sua domanda venisse accettata. Nel caso di Cesarini, invece, fu pienamente rispettata la sua volontà. E oggi le accuse che partono dai familiari sono probabilmente motivate da ragioni di interesse».
È innegabile che attorno alle tre maggiori cliniche della morte elvetiche circolino un sacco di soldi: tariffe-standard da 10mila euro (che non vengono restituiti se l'aspirante suicida decide di rimanere in vita).
Ma anche su questo punto Canevari è categorico: «Quei soldi servono unicamente
a coprire le spese sostenute dai centri pro-eutanasia. Sono organizzazioni no-profit. Nessuno ci guadagna o, peggio, ci specula. Il business della disperazione non esiste. Le do la mia parola d'onore». Vorremmo credergli.
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