Dopo Confindustria anche Standard & Poor's taglia le stime di crescita per l'Italia nel 2019, adeguandosi a quella che pare essere l'impostazione del Def. Anche per l'agenzia di rating il Pil quest'anno dovrebbe aumentare solo dello 0,1%, a fronte del +0,7% stimato a dicembre. Per il 2020 si stima un incremento dello 0,6%, contro il precedente +0,9. Le stime sono contenute in un rapporto dedicato all'Eurozona, per cui pure si rivede al ribasso la crescita dall'1,6% precedente al +1,1. In particolare, gli analisti di S&P (che il 26 aprile rivedrà la tripla B italiana) evidenziano che «è stato particolarmente colpito il settore della manifattura europea nella seconda metà del 2018, trascinato dalla debolezza dalle performance negative delle economie di Germania e Italia». Poiché il tasso di inflazione dell'area euro è stimato in calo dall'1,8% del 2018 all'1,3% quest'anno, si prevede che la Bce manterrà una politica monetaria accomodante almeno fino a gennaio 2020.
La maggioranza, ovviamente, cerca di ridimensionare le polemiche. «I conti vanno riaggiustati man mano, trimestre per trimestre, ma si possono anche fare interventi non necessariamente di manovre alternative o aggiuntive», ha dichiarato il viceministro leghista dello sviluppo, Dario Galli. Stesse parole del vicepremier Luigi Di Maio che ha confermato che «non ci saranno manovre correttive». Pessimista Renato Brunetta (Fi), secondo cui «anche un quadro programmatico con numeri gonfiati» non potrà esimere l'Italia dal mettere in piedi «una manovra economica 2020 da almeno 40 miliardi». Una necessità visto che le aste dei Bto stanno evidenziando un rialzo dei rendimenti appesantendo il costo del debito.
Il rallentamento dell'economia italiana è testimoniata anche dai dati del ministero sulle dichiarazioni Irpef 2018 relative ai redditi 2017. Complessivamente sono stati denunciati 838 miliardi di euro (-5 miliardi rispetto all'anno precedente, -0,6%), mentre il reddito medio è ammontato a 20.670 euro, in flessione dell'1,3% rispetto al dato dell'anno scorso. La necessità di riforme strutturali è testimoniata anche dalla distribuzione del prelievo. Sono quasi 13 milioni, infatti, gli italiani che non versano nemmeno un euro di Irpef. Merito della no tax area, ma anche delle contestate tax expenditures, ossia gli sconti fiscali a partire da quelli per i familiari a carico e per lavoro dipendente. Oltre 10,5 milioni di contribuenti (circa un quarto dei 41,8 milioni complessivi) godono infatti di un'imposta netta pari a zero, in parte perché compresi nella soglia di esenzione di 8.100 euro, ma anche perché l'imposta lorda si azzera spesso proprio per effetto delle detrazioni. La platea si amplia ancora, e arriva a 12,9 milioni di persone, considerando gli italiani (circa 2,4 milioni) per i quali il conto dell'Irpef dovuta viene totalmente compensato dall'impatto del bonus 80 euro. Il costo della misura renziana è stato di 9,2 miliardi per 12,2 milioni di beneficiari, mentre 1,8 milioni hanno dovuto restituirlo in tutto o in parte un totale di 494 milioni.
Poco meno della metà degli italiani ha dichiarato al fisco di guadagnare poco più di 1.000 euro al mese.
Il 45% dei contribuenti, che dichiara solo il 4% dell'Irpef totale, si colloca infatti nella classe di reddito fino a 15mila euro, mentre in quella tra i 15mila e i 50mila euro si posiziona circa il 50% dei contribuenti, che dichiara il 57% dell'Irpef totale. Solo il 5,3% dei contribuenti, ha dichiarato, invece, più di 50mila euro, versando il 39,2% del totale e pagando per tutti.
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