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Aprire al M5s, il Pd si spacca. E Di Maio gli chiude la porta

Delrio e Orlando lanciano segnali e cadono in trappola Insorgono i renziani, poi Zingaretti frena la polemica

Aprire al M5s, il Pd si spacca. E Di Maio gli chiude la porta

Sarà l'euforia per procura della vittoria del Psoe a Madrid. Sarà che i Dem italiani si identificano volentieri nell'aitante Pedro Sanchez, e quindi pensano di poter importare anche le sue alleanze con i populisti à la Ficò di Podemos.

Fatto sta che ieri mattina il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, ha pensato fosse il momento giusto per fare un'apertura, sia pur cauta, a Gigino Di Maio e ai Cinque Stelle, reduci dalla nuova batosta elettorale in Sicilia. Dopo aver apprezzato il «no» grillino alla reintroduzione del suffragio universale per le province, Delrio - intervistato da La Stampa - si è avventurato ad individuare i temi di possibile convergenza: dal «conflitto di interessi» al «salario minimo».

A Delrio ha fatto eco anche il vice di Zingaretti, Andrea Orlando, rappresentante dell'ala sinistra Pd: sulle «misure utili al Paese», come il solito conflitto di interessi, si può dialogare: «Non è che se una cosa che diciamo da 30 anni la propongono loro noi diciamo di no».

Due sassolini nello stagno, ma sufficienti a creare un piccolo maremoto interno: l'ala renziana del Pd, convinta che il sogno di «dividere» il blocco di potere gialloverde seducendo i grillini ancora si annidi nella maggioranza Dem, ha subito alzato le barricate. «I nostri elettori ci chiedono coerenza dice Raffaella Paita non possiamo avere nulla a che fare con un movimento che non applica democrazia interna, sostiene politiche di destra, sta sfasciando economicamente il Paese, fa del giustizialismo interessato un'architrave della sua proposta ideologica». E il giachettiano Luciano Nobili ricorda: «Un anno fa fu Renzi a impedire il suicidio di un'alleanza di governo con questi cialtroni. Oggi più che mai dobbiamo essergliene grati e ribadire che non andremo mai al governo insieme a loro».

Per fortuna del segretario Pd, ci pensa Di Maio a stroncare ogni potenziale tentazione dialogante, a suo dire «ridicola», e rispondendo a Delrio come un bulletto di scuola media: «Le nostre proposte sono rivolte alla Lega. Poi, se il Pd vuole votarle magari può redimersi per quello che non ha fatto quando era al governo».

La scarsa creanza di Di Maio offre a Delrio il destro di sfilarsi dalle incaute aperture: «Se c'è qualcuno che deve chiedere scusa dei propri errori e dei danni causati al Paese è Di Maio con il suo alleato Salvini». E mentre il renziano Lotti gli contesta di aver messo il Pd nelle condizioni di «prendere lezioni da Di Maio», Zingaretti può finalmente dichiarare chiusa la diatriba, liquidandola come una «grande tempesta in un bicchiere d'acqua» e attaccando la maggioranza di governo: «La vera vergogna italiana è che il Governo ancora oggi non ha fatto niente per il lavoro, litiga su tutto, e sta giocando sulla pelle degli italiani, nonostante abbia un consenso del 60%». Peraltro, spiegano i Dem, la risposta di Di Maio, che ribadisce un'intesa di ferro con Salvini, fa giustizia delle continue «risse prefabbricate» tra i due alleati, che sono solo «un teatrino organizzato per la campagna elettorale».

Nel Pd resta però un clima di sospetti sulla strategia futura della nuova segreteria: Zingaretti (ieri contestato a Napoli dai «Disoccupati organizzati», associazione nota per le azioni di disturbo e i legami con la locale criminalità) continua a dire che in caso di crisi si deve votare. Ma se la crisi davvero si aprisse, il Pd resisterebbe davvero alla tentazione - teorizzata da Massimo Cacciari - di «costruire un'alternativa a Salvini con i 5S»?

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