Armi, gli "affari opachi" di D'Alema

Nel decreto d'archiviazione zone d'ombra e trattative che smentiscono l'ex premier

Armi, gli "affari opachi" di D'Alema
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Massimo D'Alema (nella foto) ha ribadito che nell'affare con la Colombia per cui è finito prima indagato per corruzione internazionale e poi archiviato dal Tribunale di Napoli, non avrebbe incassato un centesimo. Parliamo della vendita, mai andata in porto, delle navi e degli aerei militari di Leonardo e Fincantieri a Bogotà. Un caso scoppiato tre anni fa con un audio pubblicato dalla Verità in cui si sentiva D'Alema negoziare con un discutibile personaggio colombiano, Edgar Fierro - un ex ufficiale dei sanguinari gruppi paramilitari delle Auc - di una presunta provvigione da spartirsi una volta concluso l'affare. «Divideremo tutto», diceva l'ex premier in quella call registrata di nascosto. Quel «tutto» sarebbero stati 80 milioni, il 2% di una commessa da 4 miliardi. Percentuale che lo stesso D'Alema definiva frutto di «condizioni straordinarie», ottenute grazie alla sua mediazione informale per conto delle partecipate. Informale, perché le società non hanno mai formalizzato alcun incarico all'ex premier. L'intermediario designato era un altro, lo studio legale «Robert Allen Law» di Miami, selezionato personalmente da D'Alema per l'operazione. E vedremo perché, secondo i magistrati.

Tutti i protagonisti di questa storia sono stati archiviati dalla Procura di Napoli, che non ha proseguito con le indagini per il muro della Colombia alle rogatorie. Qualche giorno fa D'Alema, ai microfoni di «100 minuti» su La7, ha ribadito che «il mio fu un tentativo lobbistico ma lecito, da cui non avrei guadagnato nulla». E che «sono caduto in un agguato, probabilmente ordito dai servizi ()». Al netto dei presunti agguati della nostra intelligence insinuati da D'Alema, restano, nero su bianco nel decreto di archiviazione del gip, alcuni elementi, non penalmente rilevanti, che vale la pena ricordare. È un fatto, per i pm, che sia esistita «una articolata trattativa», e «una provvigione del 2%» da riconoscere «per l'attività di intermediazione svolta da D'Alema», e dagli altri negoziatori italiani e colombiani. Denaro che sarebbe dovuto arrivare allo studio Robert Allen, che D'Alema «individuava» come «soggetto idoneo a cui rivolgersi». Il giudice spiega le ragioni che avrebbero spinto l'ex premier a scegliere lo studio legale di Miami, specializzato in business sui superyacht, come intermediario. E sono diverse da quelle che l'ex premier aveva detto al Corriere, cioè il fatto che lo studio avesse «legami in America Latina», e avesse «già collaborato con Fincantieri». Per i magistrati non sarebbe questa la ragione. «Grazie al suo status giuridico - scrive il gip - Robert Allen Law avrebbe usufruito della protezione e segretezza riconosciute dal sistema legale americano agli studi legali, rappresentando così lo schermo ideale dietro al quale celare, e successivamente smistare, le commissioni, senza correre il rischio di accertamenti». La trattativa sarebbe poi fallita «verosimilmente a causa di problemi relativi alla spartizione» dei soldi spettanti ai mediatori colombiani.

I pm desumono con «estrema certezza l'esistenza di una trattativa sottesa da accordi corruttivi in fase avanzata». Il gip cita infine un'informativa secondo cui ci sarebbero state «articolate e opache dinamiche» dietro all'affare, ma da inquadrare nell'ambito di «regolari scambi commerciali velati da una parvenza legale».

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