Ai giudici del tribunale della Libertà di Bologna bastò leggere le carte per rendersi conto che lì dentro di prove non c'era l'ombra: il comportamento di Giuseppe Pagliani, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, non aveva avuto «effettiva rilevanza causale nella conservazione o nel rafforzamento delle capacità operative dell'associazione», ovvero della filiale della 'ndrangheta in Emilia Romagna. Così il 19 febbraio 2015, dopo ventidue giorni di carcere, Pagliani aveva potuto lasciare il carcere dove era stato spedito con grande risalto mediatico il 28 gennaio, uno dei 160 arrestati della megaoperazione Aemilia. Ma il tunnel giudiziario è durato altri sette anni.
Solo l'altro ieri la sentenza della Cassazione ha reso definitiva la sua assoluzione con formula piena. Se la malavita calabrese ha preso piede nella grande pianura sotto il Po, non è stato Pagliani ad aprirle le porte. Come dei giudici avevano scritto già sette anni fa.
L'ostinazione con cui la procura di Bologna ha portato avanti le accuse contro Pagliani si spiega solo con il risalto che all'epoca venne dato all'arresto suo e di un altro esponente in vista del centrodestra, il parmense Giovanni Paolo Bernini. Nella ricostruzione del pool antimafia, i due erano il coronamento del teorema, la prova provata che la 'ndrangheta in salsa emiliana non era solo una banda di criminali comuni ma anche un pericolo per le istituzioni, in grado di agganciare i canali della politica. Il Pd emiliano applaudì l'arresto di Pagliani e a Parma le manette a Bernini spianarono la strada alla conquista grillina del Comune. Il successo di Aemilia aprì al procuratore Roberto Alfonso la strada per la procura generale di Milano, il pm Marco Mescolini venne nominato capo della procura di Reggio.
Tanto sicura del fatto suo, la procura non doveva essere, dato che non presentò ricorso contro la scarcerazione di Pagliani. Al processo con rito abbreviato il pm Mescolini chiese comunque per l'esponente forzista una condanna esemplare: dodici anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Sei anni la richiesta per Bernini. Risultato: assoluzione di entrambi «per non aver commesso il fatto».
Ma mentre Bernini usciva di scena, assolto anche in appello e in Cassazione, per Pagliani la procura bolognese in appello otteneva una condanna. Quattro anni, un terzo della richiesta, ma quanto bastò ai grillini per festeggiare, «Forza Italia continua la sua tradizione di condannati per gravissimi reati di mafia». Invece non era vero niente, la Cassazione annulla tutto, nuovo processo, nuova assoluzione che ora diventa definitiva. L'unico elemento concreto contro Pagliani, l'incontro con un gruppo di calabresi, non aveva mai portato alla cosca alcun vantaggio concreto. La grande alleanza tra politica e 'ndrangheta in Emilia esisteva solo nei teoremi di Mescolini.
Ma le cicatrici restano.
«È stata una carneficina personale e familiare basata sul nulla - si sfoga Pagliani all'indomani della sentenza -, un tentativo accanito di persecuzione che non ha precedenti. Se fossi stato di sinistra non avrei mai avuto questi attacchi». E se la prende anche con gli enti locali, che si sono sempre costituiti parte civile contro di lui, «sapendo benissimo di perseguitare un innocente».LF
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