«Il rischio attentati c'è e anche l'Italia avrà il suo prezzo da pagare», ha al Giornale il capo della polizia, prefetto Franco Gabrielli, puntando l'attenzione sulla possibilità di attacchi anche nel nostro Paese e sul fatto che da qui sono passati jihadisti con la reale intenzione di commetterli. Le cose, dopo queste dichiarazioni, sono cambiate, perché se a dirlo è il capo della polizia, allora significa che c'è poco di cui star sereni. Ma cosa sta facendo il governo per contrastare eventuali minacce? Il piano è chiaro e il ministro dell'Interno Marco Minniti ha messo da giorni al lavoro il Casa (Comitato di analisi strategico antiterrorismo), di cui fanno parte rappresentanti dell'intelligence italiana e delle forze di polizia. L'impegno è su più fronti, per cercare di prevenire e battere i terroristi sul tempo. Le strade percorse sono molteplici e vanno in un'unica direzione: ridurre i rischi al minimo.
Il primo passo è quello dei controlli a tappeto sul territorio. Si prendono in considerazione segnalazioni e alert, si mettono più uomini sulle strade. C'è poi il potenziamento dei mezzi di controllo attraverso i sistemi di cyber security. Il web e la telefonia mobile finiscono sotto la lente d'ingrandimento. Si studiano le relazioni tra detenuti nelle carceri italiane, visto che cresce in maniera preoccupante, secondo quanto ammesso dallo stesso governo, il rischio di radicalizzazione all'interno degli istituti di detenzione. Ma si osserva anche dal cielo, attraverso l'uso di droni, secondo un accordo passato tra Aeronautica militare e polizia, nel caso di necessità. Un punto, questo, su cui il ministero dell'Interno, fino a ora, non si è espresso chiaramente, evitando di parlare anche dell'utilizzo, già in essere da tempo, dei predator dell'Arma azzurra nel controllo delle dinamiche dei flussi migratori verso l'Italia e in partenza, per la maggior parte, dalla Libia.
E poi si punta a leggi che consentano rimpatri più veloci e, a tal proposito, si ripropone l'apertura di un Cie per ogni regione. Infine, si potenzia il rapporto di collaborazione con le forze di polizia internazionali. Insomma, è consentito l'uso di tutti i mezzi in campo pur di contrastare la minaccia silente dei terroristi. Perché un conto è fare la guerra contro un nemico ben visibile, un altro averlo in casa e non sapere dove, quando e come potrà attaccare. È l'effetto sorpresa, il più temibile e il più difficile da combattere. E, come si dice, in guerra ogni mezzo è lecito.
Collaborazione tra polizie e alert comuni
«Si sta vivendo un momento molto fortunato da questo punto di vista - ha spiegato al Giornale il capo della polizia Gabrielli - Abbiamo un rapporto ottimo con le forze di polizia internazionali e collaboriamo attivamente». La collaborazione va dallo scambio degli alert, ovvero delle segnalazioni che provengono dai vari Paesi, fino alla diffusione degli identikit dei soggetti che potrebbero essere legati al terrorismo internazionale e che potrebbero circolare per l'Europa. Inoltre, secondo fonti vicine all'intelligence, sarebbe contemplata in questo interscambio anche la visione di filmati e immagini, ripresi in vari modi, che le varie forze di polizia europee si scambierebbero per aiutarsi a identificare gli autori di attentati e arrestarli. È il caso di Anis Amri, riconosciuto grazie alle fotografie diffuse dai colleghi tedeschi, a Sesto San Giovanni dai due poliziotti che lo hanno freddato. E che, oltretutto, ha fatto da ottimo spot pubblicitario alla polizia italiana.
Nuovo accordo con la Libia sugli sbarchi
È stato lo stesso premier, Paolo Gentiloni, a decidere di spedire il ministro dell'Interno, Marco Minniti, in Libia per chiedere una collaborazione al fine di risolvere assieme il problema migranti. È, infatti, tra gli immigrati che potrebbe nascondersi qualche futuro jihadista. Il riferimento va ancora ad Anis Amri, il tunisino attentatore di Berlino una cui foto su un barcone, su cui era arrivato in Italia, circola ormai da tempo. Il capo del Viminale visiterà il Paese del Nord Africa la prossima settimana. «Circa il 90% degli arrivi in Italia parte dalla Libia», secondo quanto si riferisce al ministero dell'Interno. Ecco perché Minniti andrà a parlare, coi vertici libici, di un possibile accordo «per una sicurezza di comune interesse». La Libia, nazione alla quel l'Italia sta fornendo da tempo numerosi aiuti, ha infatti solo da guadagnare nel proseguo di una collaborazione con il nostro Paese. Un «do ut des» che, sicuramente, potrà andare nella direzione della riduzione di rischi di possibili attacchi terroristici.
Controlli mirati su Internet e nelle carceri
La comunicazione tra terroristi avviene via web o attraverso piattaforme di telefonia mobile. Ecco perché l'intelligence italiana attua una monitorizzazione continua dei profili social a rischio. Insomma, coloro che sono ritenuti vicini al Califfato vengono tenuti sotto controllo. Ci sono, però, zone d'ombra difficili da decriptare. Si tratta di quelle applicazioni il cui accesso esterno è impossibile persino per l'hacker più esperto. Sotto la lente di ingrandimento c'è la messaggeria che utilizza una connessione internet e il riferimento va a Whatsapp e Telegram. La seconda piattaforma in modo particolare costituisce un vero e proprio scoglio per chi indaga. Ecco perché, come ci ha spiegato il capo della polizia, spesso si è capito solo guardando i loro telefonini dopo il rimpatrio «che si trattava di persone che realmente volevano compiere attentati». Osservate speciali anche le carceri: secondo il governo sarebbe infatti lì che avverrebbero radicalizzazione e reclutamento.
Più uomini per la polizia e forze speciali
Che la polizia assumerà almeno altri mille agenti, per i quali il concorso uscirà a breve, è stato lo stesso prefetto Gabrielli a dirlo. Ma è possibile ce ne saranno altri nel giro di un anno. I numeri, infatti, parlano chiaro: ci sono almeno 7mila militari delle forze armate attualmente impiegati sul territorio per la sicurezza del Paese. Inoltre, sono nate da pochi mesi in seno all'Arma dei carabinieri le Api (aliquote anti terrorismo) e le Sos (squadre operative di supporto), unità operative super specializzate, addestrate anche dal Gis (gruppo di intervento speciale), in grado di intervenire in tempi brevi per esfiltrare eventuali ostaggi e neutralizzare possibili terroristi. Anche la polizia di Stato sta pensando a un addestramento più mirato dei suoi uomini, visto che in Italia, secondo i dati forniti dal segretario del Sap (sindacato autonomo di polizia) Gianni Tonelli, solo 190 agenti su 100mila sono in grado sparare a un bersaglio in movimento.
Occhi dal cielo per sorvegliare il territorio
L'accordo fu siglato il 26 novembre 2014 a palazzo Aeronautica, alla presenza dell'allora capo di Stato maggiore dell'Arma azzurra Pasquale Preziosa e dell'ex capo della polizia Alessandro Pansa. Prevede l'uso degli Uav, ovvero i droni Predator a pilotaggio remoto dell'Am al servizio di polizia e carabinieri. Già utilizzati anche per le missioni di recupero migranti tipo Mare Nostrum o quelle fuori area, in teatri operativi come l'Afghanistan, ancora oggi potrebbero sorvolare i cieli italiani per controllare eventuali obiettivi o movimenti di soggetti da tenere sotto osservazione. L'accordo contemplava un risparmio di spesa, perché in quel modo si razionalizzava l'uso degli elicotteri e si forniva un servizio utile all'intera nazione. Le immagini scattate dai droni o i video filmati, infatti, sono di altissima qualità e l'esperienza maturata negli anni dall'Aeronautica durante le precedenti missioni consente un controllo più attento e professionale del territorio dall'alto dei cieli.
Rimpatri veloci e un Cie per Regione
Il governo sta pensando a leggi mirate che consentano di facilitare il rimpatrio in tempi più brevi. Tra le proposte quella di rivedere la normativa sul reato di clandestinità: così si eviterà che i denunciati rimangano in Italia fino alla fine del procedimento penale. Nel 2016 sono stati poco più di 12mila i rimpatri forzati, contro gli oltre 181mila arrivi sulle coste italiane (secondo i dati Unhcr). A tal proposito è arrivata la proposta di riapertura in ogni regione dei Cie (centri di identificazione ed espulsione). Che avranno, però, nuove regole: gli ospiti potranno rimanervi per un massimo di 12 mesi. Il problema è che se non si individuerà il Paese di origine del migrante, lo stesso, dopo un anno, tornerà libero di circolare.
Maggiori controlli saranno attuati anche sulle realtà che gestiranno i centri. Mentre si risparmieranno soldi, visto che gli agenti dovranno accompagnare l'immigrato solo per pochi chilometri, all'interno della stessa regione, evitando lunghi e dispendiosi viaggi a carico del contribuente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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