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Attenti alla febbre greca perché è contagiosa

Votando no alle proposte europee (oggetto del referendum) i greci hanno dimostrato un orgoglio notevole che, però, non potevano e non possono permettersi

Attenti alla febbre greca perché è contagiosa

C'è poco da festeggiare. I greci, votando no alle proposte europee (oggetto del referendum), hanno dimostrato un orgoglio notevole che, però, non potevano e non possono permettersi. Perché nelle loro casse non c'è il becco di un quattrino. Essi pertanto seguitano ad avere bisogno di sovvenzioni sempre più difficili da ottenersi. In passato, Atene ha ricevuto prestiti a iosa in cambio della promessa che avrebbe provveduto a sistemare i conti, e in parte pareva essere riuscita a ridurre le spese.

Poi è arrivato Tsipras col suo partito di sinistra (dissipatore per definizione) e, anziché continuare a diminuirle, le ha aumentate assumendo migliaia di dipendenti pubblici e riaprendo la tv di Stato. Addio austerità. Il demagogo ha trattato coi creditori in una posizione di debolezza e non ha portato a casa altri finanziamenti. Ovvio, non si dà denaro a chi non solo non è in grado di restituirlo, ma nemmeno di gestire l'amministrazione in modo da recuperare qualche spicciolo.

Il referendum, il cui significato drammatico (di ostilità, per quanto motivata, verso la Ue e i suoi criteri) è sfuggito a parecchi cittadini, ha peggiorato i rapporti fra Grecia e Berlino, di fatto azzerandoli e rendendone problematica una ripresa risolutiva. Ha ragione Martin Schulz: ormai il popolo ellenico può confidare soltanto su interventi umanitari. Una frase elegante per dire che la Grecia è come un clochard: non ha niente e niente può pretendere dagli ex «soci» dell'Unione.

Può darsi che la Merkel si lasci impietosire dai mendicanti ellenici. L'Europa però non è soltanto Germania: esistono altri partner, e convincerli tutti a fare beneficenza a fondo perduto è impresa ardua. Non ce la sentiamo di avanzare previsioni sui destini di Tsipras e della sua gente. Confessiamo tuttavia di essere pessimisti circa un compromesso dell'ultima ora che salvi la Grecia. Mancano i presupposti per una simile eventualità. Il Paese è in ginocchio, le banche sono a secco, l'economia (non sostenuta da un'industria manifatturiera) boccheggia: se si esclude il turismo, essa è priva di risorse.

Foraggiare ancora Atene comporta la certezza di buttare nella discarica nuovi capitali. Difatti i debiti dello Stato, centinaia di miliardi, sono pressoché inesigibili.

D'altronde, il nodo greco è ingarbugliato da oltre cinque anni e non c'è stato verso di scioglierlo fino ad adesso; non si comprende come possa essere sciolto ora, dopo la scelta referendaria che manifesta apertamente il proposito del popolo di rifiutare la politica dei sacrifici imposta da Bruxelles.

L'esito delle urne è un duro colpo pure per l'Europa e l'euro, bocciati senza riserve da un Paese membro dell'Unione. Se si aggiunge che nel continente germogliano e fioriscono movimenti politici, sempre più forti, contrari alla moneta unica e alla dittatura del Quarto Reich, è facile capire quanto la Ue sia in crisi e incapace di reagire allo scopo di modificarsi. Le varie nazioni europee si limitano ad attaccare il populismo dilagante, considerandolo un incidente della storia quando, viceversa, è il sintomo di un malessere generato da una conduzione politica insensata per non dire gravemente dannosa.

Quanto alla Grecia, essa è vittima anche di se stessa, ma qualcuno le ha dato una mano a strangolarsi. È la medesima fine che rischiano di fare altre nazioni, se non muta lo spartito dell'Unione.

È solo questione di tempo, non molto.

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