"Basta denunce a Ranucci". E poi querelano i giornalisti

Gli stessi che vogliono il ritiro delle accuse al programma Rai chiedono i risarcimenti alle testate che si occupano di loro

"Basta denunce a Ranucci". E poi querelano i giornalisti
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Giornalisti che querelano giornalisti. Magistrati e giuristi che difendono la Costituzione e il diritto di cronaca, ma sono pronti a fare causa per un articolo sgradito. Politici che si indignano per i processi ai giornalisti amici, ma sono i primi a ricorrere a denunce quando a scrivere è un giornalista avversario. Dietro la giusta indignazione sollevata dall'attentato al direttore di Report Sigfrido Ranucci sta partendo una serie di appelli per limitare i rischi giudiziari per gli operatori dell'informazione. Peccato che questa campagna trovi appoggi in un universo che invece delle cause (spesso con richieste astronomiche) e delle denunce penali ai danni di cronisti "nemici" ha sempre fatto ampio uso. Così diventa legittimo il sospetto che si invochi una giustizia a corsie differenziate: libertà assoluta per chi sta in quel salotto buono dove convivono giornalismo d'inchiesta, magistratura impegnata e politici di riferimento. E batoste per chi sta fuori dal coro dell'antimafia-spettacolo, dal circo delle manette purificatrici.

I primi a lamentarsi col giudice di turno degli articoli sgraditi sono spesso i giornalisti, gli stessi che oggi chiedono ai politici di ritirare le querele a Report. Al direttore di questo giornale ha fatto causa due volte Marco Travaglio, che ieri dalle colonne del Fatto quotidiano invocava una "legge Ranucci", ribattezzando una proposta giacente da tempo in Parlamento che limita i risarcimenti solo ai casi di "malafede o colpa grave" dell'autore, e prevede che chi fa causa a un giornale e la perde debba versare metà della somma richiesta (norma che più dei veri potenti spaventerebbe il cittadino qualunque, anche lui spesso massacrato dalla stampa). Travaglio non è l'unico giornalista a chiedere l'intervento dei giudici contro i colleghi sgraditi: al Giornale ha fatto causa Mario Calabresi, ex direttore di Repubblica, mentre Nello Trocchia, giornalista del Domani, ha chiesto e ottenuto la condanna del direttore del Dubbio Piero Sansonetti. Sempre al direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, ha fatto causa una grande penna di Repubblica come l'autore di M, Alessandro Scurati, appassionato difensore della libertà di stampa. E, per un articolo pubblicato su Libero, ha ricorso alle carte bollate il conduttore tv Corrado Formigli, anche lui in prima fila nella battaglia contro il bavaglio giudiziario all'informazione. Anche l'editore del Domani, Carlo De Benedetti, se si considera offeso da un articolo, ricorre agli avvocati anzichè alle smentite. Stesso discorso per i politici. Alla manifestazione a sostegno di Ranucci era in prima fila il parlamentare del M5s Federico Cafiero De Raho: due procedimenti penali contro il Giornale, ritenendosi diffamato da articoli critici. Stessa linea per la sua compagna di partito Virginia Raggi, che fece causa per un articolo sui cinghiali a Roma: se fosse stata in vigore la "legge Ranucci" avrebbe dovuto risarcire il Giornale, perché perse la causa. Tra i costituzionalisti, si segnala Gustavo Zagrebelski, che in tv dice "i giornalisti di inchiesta sono gli eroi della democrazia", "quelli che governano sono insofferenti nei confronti della libera critica", ma poi quando un articolo lo tocca direttamente fa causa.

Poi c'è il vasto mondo dei magistrati, quelli che sabato all'assemblea napoletana dell'Anm hanno dedicato una standing ovation a Ranucci e alla "libertà di stampa".

Ma che poi sono i primi, e qui l'elenco sarebbe lungo e periglioso, a chiedere alla giustizia (cioè a un loro collega) di punire con il carcere o con super risarcimenti i giornalisti che stanno fuori dal salotto buono. E, chissà come mai, quasi sempre si vedono dare ragione.

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