È come entrare nell'acqua senza bagnarsi. Si può? Michele Emiliano è fradicio, ma continua a proclamarsi asciutto: «No, non mi dimetto. Resto magistrato». E avanza lanciando fumogeni: «Quello è il mio mestiere. Non ci rinuncio. E non rinuncio nemmeno ai miei diritti costituzionali. All'elettorato attivo e passivo. Semmai pongo un problema che non è solo mio, ma più generale: ci vorrebbe un intervento del legislatore. Chi come me è fuori ruolo dovrebbe rientrare sì, ma in un'altra articolazione della Pubblica amministrazione».
Lui intanto si tuffa e prova a scalare il Pd. Equilibrismi che nemmeno la legge italiana, più snodata di Houdini, riesce a conciliare. Recita il decreto Mastella del 2006: una toga può aspirare a qualunque carica, ma non può farsi incasellare dentro la vita di un partito. Sarebbe una sbandata intollerabile per chi non può fare distinzioni e deve far valere la legge allo stesso modo per tutti. Tradotto, Emiliano può fare, come ha fatto, il sindaco di Bari e il governatore della Puglia ma l'importante è che mantenga un profilo sganciato dalle sigle che compongono il nostro emiciclo. L'articolo 3 della norma vieta solo «l'iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici». Siamo, come si capisce, sul filo dell'ipocrisia perché i partiti sono il sale della vita pubblica. È davvero problematico, al di là delle forme e di eventuali escamotage, entrare in municipio o in parlamento senza schizzarsi. E però il governatore della Puglia sfonda le regole già così malleabili: fuori ruolo dall'ormai lontano 2003, è stato segretario del Pd pugliese, ora prova addirittura a conquistare la leadership del primo partito d'Italia. Che altro si può immaginare per marcare in modo così netto una carriera? Il giudice dovrebbe rimanere super partes, difficile pensare che al suo ipotetico rientro Emiliano possa rimettersi addosso il mantello della terzietà, fatto a brandelli.
Non importa. Lui avanza, comizio dopo comizio, e contrattacca, sbandierando l'elettorato attivo e passivo. La procura generale della Cassazione nel 2014 ha aperto nei suoi confronti un procedimento disciplinare: nel mirino proprio la segreteria e la presidenza del Pd pugliese. In questo modo l'anti Renzi avrebbe violato il decreto 109 del 2006 che a sua volta dà attuazione a una prescrizione della Costituzione pensata - sottolinea la Procura generale - «a garanzia dell'esercizio indipendente e imparziale della funzione giudiziaria».
Lui reagisce. «L'accusa non regge - spiega a La7 - perché fondata sull'idea sbagliata che ci siano due categorie di politici: i magistrati che devono fare politica da soli e gli altri che possono farla nei partiti». Poi da tribuno vira verso il vittimismo: «Sono l'unico magistrato nella storia d'Italia ad avere problemi di questo genere».
In realtà non è così: Paolo Taviano, che nutriva ambizioni un tantino più modeste e si sognava vicesindaco di Cassino, qualcosa di meno del Nazareno, si era visto rifilare dal Csm una censura, poi annullata dalle Sezioni unite della Cassazione solo perché la sua esposizione era durata pochi giorni e finalizzata a rastrellare voti. Ma giocare da numero uno del Pd, a Bari e poi magari in tutta Italia, è un'altra storia.
Insomma, per liberarci da una repubblica giudiziaria Emiliano dovrebbe tagliare con le forbici il cordone ombelicale. Invece, resiste. Così resta legato alla corporazione togata.
E non perde, sempre ipotizzando un ritorno a casa, gli scatti di anzianità e gli aumenti in busta paga. Infine, ultimo simpatico dettaglio, matura la pensione senza versare i contributi. Fuori, ma dentro gli oliati meccanismi della casta.
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