Da una parte Gaza, dall'altra l'Iran. E in mezzo un'operazione di terra continuamente rimandata nonostante Israele e Hamas siano in guerra da ormai 18 giorni. Ma il rischio di uno scontro con Teheran e le incognite dell'operazione dentro Gaza non sono ovviamente questioni distinte e separate. I primi a ricordarlo a Bibi Netanyahu sono i suoi migliori alleati ovvero Joe Biden e l'amministrazione statunitense, che ieri ha inviato in Israele un generale dei Marine e altri ufficiali in veste di consiglieri per le operazioni militari israeliane a Gaza e detto che discuterà del cessate il fuoco solo dopo il rilascio degli ostaggi. Nelle ultime 72 ore da Teheran sono arrivate precise minacce. Ieri Alì Fadavi, numero due dei Guardiani della Rivoluzione, durante un discorso all'Università di Teheran, ha ipotizzato un attacco missilistico ad Israele. «Molti di voi giovani pensano - spiega Fadavi - che l'unica azione pratica sia lanciare un missile su Haifa... Ma questo, se necessario, verrà fatto senza esitazione».
Al confine israelo-libanese le incursioni di droni e i lanci di razzi anticarro si susseguono da ormai 18 giorni con morti e feriti da entrambe le parti. E questo mentre le milizie sciite irachene colpiscono le caserme statunitensi e i ribelli filo-iraniani annunciano di tenere nel collimatore le basi di Usa e Israele. Basterebbe, insomma, un ordine di Teheran per trasformare quest'insieme di scaramucce e minacce in guerra vera. A quel punto gli Stati Uniti non potrebbero esimersi dal colpire un Iran considerato il Grande Fratello di tutte milizie armate sciite attive in Medioriente. Ma sia evitare la guerra sia prepararla richiede tempi lunghi. In questo frangente l'unico modo per guadagnare tempo è impedire che l'operazione militare israeliana a Gaza infiammi ulteriormente le opinioni pubbliche mediorientali spingendo Teheran a un intervento diretto.
Ma a rallentare l'operazione di Gaza e la voglia di rivalsa di Israele hanno concorso anche altri fattori. Il primo è stato la necessità di aggiornare e rinfrescare l'addestramento dei 300mila riservisti richiamati in vista dell'assalto alla Striscia. Al problema dell'addestramento, ormai risolto, si è aggiunto quello dei 200 e passa ostaggi. Nei primi giorni Netanyahu e il suo governo avevano trascurato la sensibilità della propria opinione pubblica su questo argomento. Una sensibilità su cui giocano Hamas e il Qatar. L'emirato, grande finanziatore di Hamas oltre che suo sponsor politico-diplomatico, è protagonista, da almeno una settimana, di un'ambigua trattativa il cui obiettivo è anche rallentare l'offensiva di terra israeliana promettendo a Washington e Gerusalemme la liberazione degli stranieri e delle donne e dei bambini israeliani. E nonostante l'apparente fretta dei vertici militari - che da ieri premono sul governo per ottenere il via libera all'operazione - molti generali non nascondono il timore far i conti con nuove e inattese trappole di Hamas. Dal loro punto di vista gli artefici dei massacri del 7 ottobre non possono aver trascurato la risposta a una scontata operazione israeliana nel cuore di Gaza.
Proprio per questo i richiami degli Stati Uniti, le minacce iraniane e il fattore ostaggi sono ottime scuse per continuare i bombardamenti aerei, indispensabili non solo per annientare preventivamente basi e centri di comando di Hamas, ma anche per creare varchi in cui avanzare con colonne di blindati che rischierebbero, altrimenti, di ritrovarsi imbottigliate nei dedali del centro urbano di Gaza.
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